12 settembre 2012

Le parole della politica o di quel che ne rimane: biologistico e enews



 «Gli uomini immaginano di manifestare virtù e vizi solo attraverso azioni palesi, 
e non vedono che virtù o vizio emettono in ogni momento un loro proprio respiro».
Ralph Waldo Emerson


Da oggi e per tutta la campagna elettorale prossima ventura, quando ce ne sarà occasione, si prova qui ad esaminare in maniera confusa, esagerata, dispersiva ed efferata le parole dei nostri politici. Non i loro strafalcioni ma le salienze, le cose che colpiscono, anzi, venendo la parola "salienza" da ciò che sale, che spicca in quanto in rilievo, piuttosto qui si cercheranno le cose che sprofondano, che nella distesa uniforme di cera e colla che è il discorso e il senso pubblico lasciano un segno negativo, affondano in un tonfo o un buco per la loro insensatezza, perché risuonano e suonano strano, storto, come scarti non d'intelligenza ma di un di più di automatismo.

Partiamo in maniera prolissa dall'11 settembre 2012 (ieri)
Nichi Vendola:"[Ricky] Martin è un padre meraviglioso", "culture di tipo biologistico". 

In un articolo in cui Vendola rivendica il proprio diritto alla paternità, se la prende poi con quelle cuiture per cui il padre o è biologico o non è.  Ma  qual è il bisogno di usare la parola "biologistico" che si discosta da una ordinaria -se pure tecnica- come biologico?  Vendola vuole quindi rivendicare una riflessione straordinaria, e tecnica, non necessariamente scientifica, ma comunque densa di un sapere che si vuole rimarcare e distanziare dal discorso comune. Vendola usa l'esoterico, il noto solo ai pochi (la tecnica e il tecnicismo come nuova mistica o viceversa), un quasi-latinorum abbastanza comprensibile - si deve comunque far votare, il suo è un potere che vuole confondere per avvicinare, non per allontanare le pressioni e le responsabilità, come quello, misero e gretto, dell'Azzeccagarbugli e della Dc. Forse il cacofonico e ridondante "biologistico" serve per connotare negativamente queste posizioni che non vogliono far fare i padri ai gay, o forse per Vendola il sapere è potere non in un senso liberatorio -il contropotere personale della riflessione critica- ma come soffocazione: stringere, costringere e sconfiggere l'avversario in una morsa di nozioni, paroloni, insufflazioni  di complessi di inferiorità- una sorta di machismo (!) culturale.  
Comunque per uno che è contro il governo dei tecnici l'uso non degli slanci poetici ma piuttosto di un tecnicismo -di quale tecnica poi? la politica o la scienza e le sue filosofie?- è bizzarro, e abbastanza brutto ed inutile. 

Matteo Renzi"forza di un sorriso", "un cammino nuovo", "amici del popolo delle enews",  
così si presenta nel suo manifesto per le primarie ilpost.it/2012/09/11/log…

A parte la "forza di un sorriso" (bruxismo?), frase fatta da pubblicità (che conia frasi fatte nuove -ecco il suo genio o meglio la sua ragion d'essre- mentre quelle renziane sono vecchie e riciclate) Renzi non dovrebbe essere il giovane delle nuove tecnologie? Perché enews non lo usa nessuno, ma davvero nessuno, in rete. Quindi se ne conclude che Renzi non la conosce e non la frequenta, la rete, né la conoscono o frequentano i suoi consiglieri, o meglio possono pure frequentarla ma tanto non la capiscono - tutti andiamo in macchina, non per questo capiamo di meccanica o meglio ancora di viabilità e di progettazione urbanistica. 
E poi quel "cammino nuovo", che cos'è, allusione cattolica? O forse un riferimento ai molti cammini religiosi (francigene, santiago etc.) che negli ultimi anni si sono pseudolaicizzati, attraverso quel gran motore di secolarizzazione che è la moda  che introduce sempre la morte e la mortalità delle stagioni -andar di moda è andar di morte, (questa è più o meno di Leopard)i- e quindi uccide la trascendenza per creare un rito più genuinamente vuoto e inutile? Insomma Renzi sembra la Milano da bere riciclata e rimasticata tra pubblicità anni '80 e spiritualità succedanee non impegnative anni '90  -il carisma religioso del politico dopo la morte non di Dio, ma, boh, dell'uomo ragno e di Dc e Psi; E  in questo spazio tra pubblicità e pseudovocazioni, c'è appunto il nulla, nuovista più che nuovo.

E allora, scrivendo qui di Renzi,  mi viene in mente che forse quando si parla del "nuovo che avanza", non si intende che procede in avanti, questo nuovo, ma piuttosto che sia in sovrabbondanza, un di più, uno scarto, un rimasuglio di altri vecchi nuovi, che sia rimasto lì e ogni tanto si riproponga, guasto e marcito, come il riflusso del martini della Milano craxiana.


05 marzo 2012

Vita, sorte e miracoli di Lucio Dalla, ovverosia due o tre cose che so di lui.



Gli elaboratori hanno per sorte 
 di aiutare l'uomo a vincere la morte.

Roberto Roversi

Lucio Dalla era, è stato, sarà anarchico (il cucciolo Alfredo), comunista, ateo e bestemmiatore e insieme pagano (Siamo dei), cattolico, a un certo punto perfino baciapile disperato erotico, stomp, una checca che fa il tifo, il più grande pianista italiano in do, il gigante e la bambina (l’inverno è neve, l’estate è sole), un bambino di fumo, sempre in giro a cercare per le strade, un uomo come me, un linotipista, uno stronzo, Sancho Panza, un marinaio con la sua giubba in mezzo al mare, solo come una scarpa su un biliardo pronto per un nuovo imbarco, a far suonare un pianoforte lasciandoci dentro anche le dita, una macchina negra ma adesso lo chiamano Zebra da quando gli han messo le braccia di un bianco di nome John, un latin lover con la faccia da Beethoven e un paltò se non mi sbaglio blu, un angelo alto biondo invisibile che bello che sarei seduto fumando una malboro al dolce fresco delle siepi, un siciliano, Domenico Sputo, un mistico, un santo forse un aviatore, con cinquanta chili d’ossa e un fisico eccezionale, paff bum.

Al Busker Festival di Ferrara nel 1989 con Jimmy Villotti

Negli anni ‘60 pare (siamo un po’ nel mito, non v’è certezza, ma non ha nemmeno senso cercarla) che a andasse in giro con delle ciliegie che pendevano dalle orecchie, appese per quel ramoscello che le tiene insieme. Ogni tanto si presentava con una gallina al guinzaglio.

Sempre in quegli anni (uscirà nel '70) scrive il primo, e per lungo tempo l’unico, testo di una canzone, Non sono matto, o la capra Elisabetta, la cui musica è di Gino Paoli. È la storia, anzi la messa in canzone, di uno sproloquio, di gelosia e disperazione, durante un processo. Molto bella, già qui parla e canta insieme.

La collaborazione con Roberto Roversi, tre album dal '73 al '77, termina con Dalla stremato e con un’ulcera perforante, sotto l’enorme pressione del poeta, più anziano, austero e sobrio, comunista e lirico, uno strano padre. Sfibrato, stanco, dopo questa scuola, rinasce cantautore, sgorga il flusso, non quello terso e distillato di Roversi, ma quello impastato dell’oralità, del parlato a perdifiato e pieno di inflessioni che si fanno cantato. Scrive così nel '77, dopo ben quindici anni di testi di canzoni altrui, a trentaquattro anni, il suo primo/secondo testo, Com’è profondo il mare, e l’acqua qui ha molto a che fare con questo suo flusso di parole e con riscoprirsi, rinascere e inventarsi anche scrittore - scrivente, paroliere, parolaio, non so bene come dire - dopo essersi inventato cantante, attore, personaggio televisivo e tante altre che verrano. Roversi stesso elogerà più volte Come è profondo il mare come una delle sue canzoni più riuscite, come una fusione di linguaggi in una sola voce: c’è l’ordinario, il quotidiano, il dialettale, lo smozzicato, il poetico come il rubato, l’ermetico che si scioglie in un discorso che sembra aver senso proprio perché scorre, continua e non si interrompe ma piuttosto a un certo punto muta, con un po’ di trucco e un po’ di mimica, in canto -queste mezze categorie qui le dico io, ché non mi sono andato a rileggere Roversi, ma spero rendano almeno un po’ l’idea.

Roversi, fra le altre cose tutte bellissime, gli fece musicare, cantare e interpretare un listino di borsa, La borsa valori. E Lucio Dalla ce la fa così bene - raccontava di viaggi Bologna-Roma, che però valevano quanto un Palermo-Francoforte, per andare a reincidere una sillaba o una frase che non soddisfaceva Roversi- che si arriva ad imparare a memoria questa sequela di nomi di aziende, quotazioni e riporti finali al mese di Novembre - perlomeno a me è successo. Qui i due stavano giocando con i limiti e le possibilità della canzone - avanguardia la si potrebbe chiamare, ma no, è più giusta la perifrasi- senza manierismi, senza autocompiacimenti, non abbandonando mai la musicalità, la musica e il ritmo.

Ne Il futuro dell'automobile e altre storie, lo spettacolo scritto con Roversi a metà anni ‘70, faceva un numero divertentissimo con il clarinetto, fra gramelot e scat, smontandolo, giocandoci; ne lessi una recensione entusiastica dell’epoca da parte di Dario Fo, purtroppo non la ritrovo. Qui lo rifà a fine anni '80.

Canta per ben due volte Ulisse, una proprio su parole di Roversi, Ulisse coperto di sale, un’altra in Itaca con il testo di Baldazzi e Bardotti, dalla prospettiva dei marinai.

Proprio Ulisse coperto di sale è stata campionata dal rapper Timbaland nel pezzo Indian Carpet dell'album Indecent proposal nel 2001. Anche un altro rapper, The Alchemist, la usa in un suo o pezzo.

In Itaca il coro un po’ sgangherato, mai in perfetto unisono, dei marinai di Ulisse che si lamentano delle avventure del capitano avventuriero, e che vogliono solo ritornare a casa, è fatto dai dipendenti degli studi della Rca a Roma, impiegati, operai, macchinisti, baristi. L’idea fu di Dalla.

Le sue canzoni sono state spesso ricantate in altre lingue. Da Chico Buarque de Hollanda che ha rifatto 4 marzo 1943, che diventa Minha Historia, passando per bande mariachi, fino a Olivia Newton John, con Tutta la vita - il titolo è in italiano- e un bizzarro video a bordo di una portaerei. E sorprendentemente la canzone rimane bella.

In Cinema, un pezzo di Henna del 1993, forse l’ultimo album con dei grandi guizzi, partecipa Mastroianni, con una sola frase, ripetuta, ma che lascia un segno (di che? non lo so dire, forse di stralunatezza e insieme di grande semplicità) sul brano, se non sull’intero album: «Dimmi dove vai?» «Vado sulla Luna» «Posso venire con te?» «Ma lassù piove».

In Tania del circo, pezzo strumentale, suona il sax con il pianista jazz Franco D’Andrea. C’è un testo nel libretto del disco e un consiglio, «Cantatelo voi».  

Nel 1990 su Radio Due intervista il suo amico Federico Fellini -che pare si addormentasse spesso ai suoi concerti- e Fellini a sua volta lo reintervista, insomma è una chiaccherata. Qualche sant’uomo l’ha messa su youtube. È un po’ che non la risento, ma ricordo Fellini che racconta delle sue brevi e fugaci lezioni di piano con una bella maestrina -non so se la chiamasse maestrina, ma suona-, lui innamorato e spaventato della musica anche se completamente ignorante (avevo scritto ignorato) al riguardo. Ed entrambi, il regista con la vocetta sottile e il corpaccione romagnolo, e il cantante irsuto e piccolino dalla voce strappata non si sa bene a chi, si confessano di avere bisogno di qualcun altro, di una conversazione, di un interlocutore o di una faccia, per pensare e sentire di esistere, e di sentirsi ogni volta cambiare, riesistere in forme nuove, proprio al cambiare delle persone a loro attorno.

È nato con il jazz, poi il beat negli anni ‘60, ha continuato folk, con Roversi ha fatto di tutto, dalla melodia alla ballata allo scat, poi ha preso ritmi funk, sincopati, per appoggiarsi e rilanciarli nel torrente delle sue proprie parole e note. Poi è andato verso un pop melodico, spruzzato di elettronica, arrivando anche al nazionalpopolare. Da bolognese ha scritto e cantato una (meta)canzone napoletana, Caruso, che poi non ha mai amato fino in fondo. Era un dilettante, speciale, mai specializzato.  Insomma Lucio Dalla ha cambiato tante volte - un album del 1993 si intitolava Cambio-, seguendo i suoni e la musica del momento, alle volte facendosi inseguire lui dalla musica e dal tempo, e negli ultimi anni i veri cambiamenti erano nei tentativi extramusicali, nelle regie di opere liriche, nei programmi televisivi, nella scrittura di un musical, ché era curioso, vivace forse vorace, e insomma si capiva che da un po’ di anni voleva e poteva più di tutto divertirsi, senza ulcere, con allegria, lui che si era disperato di averla cercata per una vita senza trovarla, anche se un po' di nostalgia non sembrava mai mancargli, un po' di frizzante malinconia. La sua vena musicale si era insomma inaridita, ma sembrava esser rimasto sempre sveglio, vispo, mezzo genio mezzo deficiente.