05 novembre 2008

Miss America & Mr Obama (goes to washington)


Quando ero bambino, sarà stata la prima elezione di Clinton, mi ricordo andai
in un bar e sentii un po' di gente che parlava delle elezioni americane, erano quella notte e loro sarebbero stati svegli a vederle. A me sembrava proprio una cosa strana, bizzarra, che qualcuno stesse sveglio la notte -sempre stato pigro- per l'America, per una cosa molto lontana e strana, e da bambino forse mi attirava più di quanto mi attiri adesso.

Poi stanotte ho fatto nottata, l'avevo fatto solo per le elezioni nostrane, e mi son trovato a seguire siti vari americani ed un po' di borghesia blogger-chic (di cui ogni tanto uno rischia di far parte), quella un po' eccessivamente innamorata di Barack. E stavo lì a sentire "hanno chiamato (che vuol dire assegnato) la Virgina", "qui il distacco è in double digit (doppia cifra, presa dallo sport st'espressione)", e speravo proprio che ce la facesse. Ci speravo molto più di quanto pensassi, e non solo per il terrore per McCain, vecchiaccio guerrafondaio ed iperliberista. Poi magari fra vent'anni guarderemo ad Obama e ci ricorderemo di come abbia dato il colpo definitivo alla trasformazione della politica in spettacolo, o peggio in religione. Però almeno è stato un bello spettacolo. Che con noi non c'entra niente, sia molto chiaro, come dice l'immancabile Leonardo, lucido ed affilato:

Paradossalmente l'exploit di Obama in Italia è impensabile proprio perché noi andiamo a votare quasi tutti. Non c'è nessun ventre molle in cui affondare. Le parti sono fatte più o meno dal 1994: metà centro-sinistra, metà centro-destra. L'alternanza non la fanno i cosiddetti indecisi, ma i transfughi, le leggi elettorali in continua evoluzione, le composizioni e scomposizioni di alleanze e cespugli, e infine gli astensionisti (che spesso praticano un astensionismo consapevole e selettivo: rifondaroli delusi da D'Alema nel 2001, berlusconisti mosci nel 2006). Il fatto che una democrazia iper-partecipata non sia per forza una buona democrazia è di un'evidenza che personalmente mi schianto

Comunque io oggi sono contento, molto contento per questa elezione di Obama, anche se non so e non penso che porterà il cambiamento che potrei sperare. Però ha già portato un cambiamento, un enorme cambiamento, quello che dicono tutti, che fa commuovere, quello razziale. Molti degli afro-americani intervistati ripetono "ora abbiamo un modello per tutti i bambini, sanno che possono farcela", e sta cosa è più vera del vero, purtroppo abbiamo ancora bisogno di modelli antirazzisti. Anche in varie parti dell'Africa ci sono feste e giubili, perché giustamente in molti la sentono come loro vittoria.




Nella soddisfazione e un po' nell'invidia per gli americani, così naïf da poter ancora credere in qualcuno, non posso però rammaricarmi per il fatto che la "proposition 8", ovvero il referendum per abrogare il diritto dei matrimoni omosessuali in California, pare sia praticamente passato, ahinoi con il grande contributo della comunità afro-americana.

L'amico Nullo riporta questo commento:
There is something so indescribably wrong about voting to remove the barriers of one injustice, while simultaneously voting to shore up the barriers of another.
e poi chiosa amaro -era pro Hillary, capitelo:
much more simply, this might show that people, even in ultra-liberal California, did not vote for Obama to tear down the racial wall.

04 novembre 2008

Obama visto da qui, periferia dell'impero




Sulla stampa di ieri parecchia destra nostrana, da Frattini a Chiara Moroni, si schierava con Obama con improbabili paragoni con Berlusconi, e il Giornale, marciandoci ma neppur troppo, scriveva netto che Obama non è di sinistra, né di destra, ma post-ideologico, post-razziale, bipartisan. Oggi la confidustria, alias il Sole 24 ore, alias Stefano Folli, scrive che Berlusconi si prepara a fare di Obama il nuovo Blair, che paura. Il manifesto invece, con quel fine americanista -se si dice così- che è Marco D'Eramo, nello schierarsi con Obama, legge le elezioni di oggi come un referendum sul razzismo, sull'economia ché perfino «il moderatissimo Obama è stato accusato di socialismo», e sul genere -vedi Hillary Clinton e Sarah Palin. Insomma il manifesto vede in Obama, pur conscio del suo scarso progressismo, una possibile frattura al neoliberismo, anche se come scrive bene la Rossanda è più una speranza che una previsione basata sulle dichiarazione del candidato Obama. Certo, dico io, sarebbe bello che quell'ideologia nata a Chicago con Milton Friedman venisse spazzata via da un nero, anzi un meticcio che è meglio, e che proprio a Chicago ha fatto il community organizer. Ma questo son io che voglio fare il romanziere, in realtà nemmeno ci spero lontanamente.

Ieri sera da Gad Lerner, all'Infedele, ho sentito definire Obama in vari modi, un intellettuale, che mi pare eccessivo, un leader post-razziale, un uomo del cambiamento -nessuno specificava "in meglio", ché si può anche cambiare in peggio-, uno che non appartiene alle elite dei vari partiti, insomma un po' di tutto. L'unica cosa veramente interessante l'ha detta Gabriele Romagnoli, spiegando che visto che mr Barack Hussein Obama, per storia familiare e soprattutto colore della pelle, non poteva far scattare l'identificazione con l'elettore medio, non poteva far scattare l'effetto "sono come te", "sono quello con cui andarsi a bere una birra", ed allora ha puntato all'effetto messianico, dall'alto, all'uomo nuovo. Ad un vecchio uomo nuovo dico io, con il suo essere bipartisan in maniera ideologica, centrista e religioso, devo dire che però si è costruito proprio bene l'immagine, fra Kennedy e Regan, con un intelleginte gioco di celebrità.

Comunque, anche da qui, dalla terra che ha copiato pure il nome del partito americano, oltre che gli spostamenti a destra, forza Obama, pur tutti i se ed i ma che da sinistra verrebbero da fare. Mi viene in mente Chomsky -il quasi guru della sinistra ribelle americana- che nello scontro fra Kerry e Bush invitava a votare per il primo, nonostante le non eccessive differenze fra i due, perché il potere, il potere di un presidente americano, è un tale effetto moltiplicare che da piccole differenze di partenza si arrivano a grosse differenze per il mondo. Speriamo che questa volta le potremo davvero vedere.

03 novembre 2008

Arrivederci (al festival del film di) Roma



Ché io non c'ero mai stato ad un festivàl del cinema, intendo in pianta stabile con l'accredito, rimediato per altro, ma poi ho scoperto che volendo uno in qualche modo se lo fa.

- i biglietti c'hanno tutti scritto sopra Vietato ai minori di 18 anni, ché visto che sti film che vanno ai festival non hanno ancora passato il visto della censura. Che uno si tende a dimentircarlo, ma all'Italia c'abbiamo la censura.

- Se facevi la rush line, che vuol dire che se hai un badge fai la coda e se ci son posti in sala ti fanno entrare, entravi a tutte le proiezioni e incontri. Ed intendo proprio a tutti, per lo meno in questo festival mai frequentatissimo la rush line è sempre entrata tutta o quasi, tranne forse da Pacino o cose simili.

- I ragazzini per High School Musical erano assatanati, letteralmente, posseduti da qualcosa, che poi le protagoniste ed i protagonisti non so nemmeno bellissimi o roba simile. Comunque per la prima con qualcuno degli attori c'è stata la guerra dei posti, degli accrediti, dei politici. E poi al giorno clou c'erano dai bambini di 7/8 anni, non di più che già così è troppo, ai sedicenni.

-Quasi mai la sala era piena

-E' bellissimo vedere un film non sapendone quasi niente -quasi, dico, perché sennò uno finirebbe a vedere pure High School Musical-, e farsi prendere da un po' di girare del caso, fra proiezioni che si incastrano ed uno vede un po' dove lo porteranno gli orari.

-La maggior parte dei registi intervenuti -Assayas e Greenaway forse i più interessanti- c'aveva na voglia di parlare, di parole, che poi ti spieghi perché in molti scrivono libri, o anche film a pensarci bene.

- La mia personale classifica del festival, almeno di quello che ho visto, che per gran parte non era in gara, è Chinese Coffee, film di qualche tempo fa di De Niro di cui al primo giorno, poi il docu-film-mentario Stolen Art di Simon Backès, di cui al sesto giorno, e poi Serce na dtoni, di Zanussi di cui al penultimo giorno

- Il pubblico, insomma noi pubblico, non è male, ma potrebbe fare di più. Troppo caciarone, troppe domande banali assai, o paura di farle.

- L'organizzazione, boh, poteva fare di più in ogni senso, l'unica sezione veramente bella era quella Altro Cinema (complimenti a Mario Sesti e soci), quello che son mancati son proprio i film "tradizionali", narrativi, tutti abbastanza deludenti -non ho visto Appaloosa e dicono che quello riscattava un pò il tutto, e forse pure un po' Winspeare con Galantuomini.

- Non ho mai votato per un film, pur potendo in quanto parte del pubblico, che sta cosa della gara mi fa impressione, e poi le cose belle erano tutte fuori gara o quasi.

- I giornalisti so meno peggio di quello che un pensa, ma comunque non son granché

- Le attrici, quelle belle, beh viste dal vivo so' proprio belle.

- Tre o quattro film li ho interroti in mezzo, all'inizio, verso la fine, per la coincidenza con altre proizioni. Mi pare Schattenwelt -roba di Raf in Germania, ma non Baider Meinhof che sembrava troppo la Banda della Magliana-, Exodus, un documentario sull'album omonimo di Bob Marley, e qualcos'altro che non ricordo. E come diceva già Pennac dei libri parecchio tempo fa, beh si può fare, interromperli e andare avanti, altrove.

- Essendo un festival mi sentivo più legittimato a vedere film da solo, sottile arte altrimenti da me pratica pochissimo, e mi sa che debbo continuare a farla sta cosa, a farmi un festival personale in testa.

- Ogni tanto, con Rocknrolla -yeah!- soprattutto, sopraffatto dalla fame avrei voluto dei Pop Corn.

- E' bello quando i film ti si mischiano in testa, le coincidenze le ri-monti insieme e ti fai un film tuo, da cui vieni scavalcato,

- Più film vedo al giorno più sono contento, ma devono essere in sala, col buio.

- L'anno prossimo ci torno sicuro, però così, ad immersione piena.

01 novembre 2008

Diario del vostro blogger infiltrato al festival del film di Roma 2008 - giorno 9 e 10

9° e 10° giorno Giovedì 30 e Venerdì 31 Ottobre

questi ultimi due giorni sono stati due soli film, che tra la manifestazione di Giovedì -bella, pienissima, ed io mi commuovo quasi sempre alle manifestazioni, che quasi ci credo che qualcosa non è perduto, meno male che non si son visti i fascisti-, il dentista, altri impegni e l'inedia, beh due sole proiezioni. Una al giorno, entrambe in serata.

Giovedì Serce na dtoni di Krystof Zanussi, ovvero A Warm Heart, od in italiano Col cuore in mano, divertito ed ironico racconto, con punte molto nere e di sarcasmo spassoso, indove si racconta "come un gatto si sostituisce al destino" (questa è di Mereghetti dal corrierone), ovvero di come lo spietato ed attempato miliardario Kostanty -interpretato da Bodhan Stupka, attore ucraino eccezionale-, uno di quegli oligarchi spuntati come funghi (velenosi) dopo la caduta del comunismo ed affini, cerchi e forse trovie un cuore per il trapianto necessario dopo una vita d'eccessi, il cuore di un povero ragazzo ridotto all'osso , licenziato per eccessiva bontà, dal candore ingenuo e dal volto espressivo, e che tenta da un po', senza riuscirci, il suicidio.

I due caratteri -ed i due attori che gli danno corpo- sono quasi all'opposto, in un'opposizione netta che rimanda alla favola: innanzitutto c'è il miliardario criminale che tutto può, arrogante anche verso la morte, che umilia i collaboratori, i dottori che gli vietano il fumo e gli stravizi. Nel disporre della sua futura eredità, in una scena fulminante, dovendo decidersi su come danneggiare il più possibile il mondo dopo la sua dipartita, scartando Al Qaeda -«hanno i petrol-dollari»-, la droga -«è da lì che vengono i soldi, non facciamoceli tornare»-, alla fine sceglie per il Decostruzionismo, filosofia post-moderna abbastanza nichilista, con annesso filmato su internet in cui il filosofo di turno nega l'esistenza di Dio, del bene, del male ed affini. Così il nostro caro boss decide di finanziarli con diverse borse di studio- Zanussi è un bel cattolicone, e quindi magari ste cose un po' le pensa davvero, ma fatto sta che sta scena è geniale.


Dall'altro lato della vita, e del film, c'è il giovane ex commesso Stefano, ex studente di filosofia (ma guarda un po'), un po' un nuovo Candide, anche se all'opposto, con un delicato ma nettissimo pessimismo che lo porta a decidere di uccidersi. Dopo infatti aver perso il lavoro, e con la ragazza in partenza per l'Irlanda, Stefan decide di farla finita, con qualche ripensamento che però il Boss fa tutto per eliminare, cercando di farlo accompagnare al grande passo da Angelo, uno dei suoi scagnozzi migliori, con fuori l'ambulanza pronta a prendere il corpo caldo.
Non andrà come previsto, il che è ovvio, ma Zanussi, sta volta che decide anche di far ridere, ci fa proprio fare. Spero che esca qui da noi.

Il giorno dopo film diverso, mondo diverso, risate ma più grasse ma comunque buona dose di causticità anche qui e con qualche legame. Rocknrolla -ogni volta che lo pronuncio, scrivo o penso mi viene da aggiungere un YEAH!- film di Guy Ritchie, l'ex di Madonna ché almeno è rinsavito da quell'errore, che ritorna nuovamente sul sottobosco criminale inglese e londinese, come nei suoi dirompenti primi film The Snatch e Lock & Stock. Questa volta intreccia la storia del Wild Bunch -bella citazione-, un gruppo di criminali di medio livello, professionisti affidabili direi, con quelli di Johnny Quid, una rockstar sotto crack e dalle molte morti annunciate, chiaramente modellato su Pete Doherty, ed il di lui padrino boss della mala londinese, e per non farsi mancare un legame con il film di Zanussi, pure uno spietato ed iper ricchissimo e mafiosissimo oligarca russo, che organizza i suoi meeting d'affari nella zona vip di uno stadio di calcio, insomma è Abramovich.



Tra truffe, contro truffe, amicizia fra criminali ed omosessualit, debiti, alta finanza e palazzinari, scene di violenza veramente intelligenti, in cui si vede poco e niente, ma si sente pompare l'adrenalina più dello sguardo che di altro, beh Rocknrolla -yeah!- è proprio un bel film. Cazzuto, ma ironico, non troppo fallico, pur con la colonna sonora che pompa alla grande ed un gran bel cast -Tom Wilkinson, vecchio attore inglese di affidabilità totale, Gerard Butler, che dopo 300 per fortuna qui recita, una affascinantissima Thandie Newton da brividi e tanti altri. La regia, ipercinetica quando serve, non sempre legata alla narrazione lineare, è molto ironica, secca quanto basta e poche concessioni al patinato, sempre incollata alla trama -Ritchie l'ha anche scritto il film- che gira perfettamente fra peripezie e sorprese. Tanto per dirne una, l'unica scena di sesso del film durerà 20 secondi, in cui compaiono solo le aperture delle zip, le facce orgasmanti dei due, dopo i diversi e ripetuti atti ché questi so film, e poi chiusura delle zip ed annessa sigaretta. A, e poi gli applausi miei e le risate del pubblico in sala che rispetto a quello di Zanussi era quattro o cinque volte tanto.

31 ottobre 2008

Diario del vostro blogger infiltrato al festival del film di Roma 2008 - giorno 8


8° giorno Mercoledì 29 Ottobre


Si parte con Kill Gil volume 2 e 1/2, il documentario lascito di Gil Rossellini, figlio di Roberto. Colpito quasi quattro anni fa da un infezione fulminante e rarissima che lo ha paralizzato alle gambe, oltre che avergli devastato l'organismo dopo averlo ridotto per oltre un mese in coma. Non ho visto i due precedenti volumi, che hanno girato per festival e ottenuto discreta visibilità, questo purtroppo è in tragica continuità con entrambi, visto che continua il calvario di ospedali, decine di operazioni, dolori tremendi. Già il secondo volume voleva essere quello del ritorno alla vita normale, al suo mestiere di regista di documentari dopo una vita "avventurosa" che lo aveva portato a suonare come musicista professionista, a fare il corridore automobilistico e viaggiare il mondo. Purtroppo nè il secondo volume né questo secondo e mezzo raccontano il suo aspicato ritorno ad una forma di normalità, quest'ultimo si conclude il giorno prima della sua morte, il 3 ottobre scorso-lui stesso ne stava montando una versione ovviamente diversa. Questa stessa serata, con molti familiari, amici e medici presenti, era stata pensata e voluta da Gil stesso, ed il documentario doveva raccontare tutt'altro, ma purtroppo il grave peggioramento a fine agosto, l'amputazione della gamba successiva, hanno fatto sì che non ce l'abbia fatta, ed in sala c'era questo senso profondo di lutto, di mancanza. E' un documentario-diario molto tosto, sincero e mai retorico, con sprazzi di ironia commovente -quando decide di battezzarsi commenta con la sua voce malferma «non è questo il luogo per dare spiegazioni» e parte in sottofondo la musica di Jesus Christ Superstar-, con un montaggio alternato fra ospedali e festival del cinema, da Maiori a Doha, in Qatar, invitato al festival di Al Jazeera.

Nell'ultimo anno e mezzo riesce anche a produrre il suo primo lungometraggio in HD, quello di un concerto della Dizzy Gillespie Jazz Band. Un uomo così determinato in vita mia non l'ho quasi mai visto, lucidissimo, con una voglia di vivere in pieno incredibile, che progettava il suo futuro come "attivista radicale per i diritti dei disabili", che sperava ardentemente che Tarantino gli facesse causa. Mostra anche senza remore, ma senza indulgere, alcune delle sue 45 operazioni in tre anni e mezzo, scene forti, tant'è che in sala sono svenute due persone, ma non si riusciva ad interrompere la proiezione ed accendere le luci per stupidità di un'organizzazione pessima.

Gil Rossellini ci mostra anche quando si trova lui stesso a decidere se amputare la propria gamba quasi cancrenizzata, il tutto in maniera molto schietta, molto secca e netta, catturato in qui precisi momenti, ma con una voce dal di fuori che se possibile era ancora più asciutta. Quando gli chiedono, mi pare in un'intervista televisiva, il perché abbia fatto tutto questo, questi tre film, racconta come al risveglio dal coma trovò la sua telecamera sul comodino, ed inizio a riprendere ciò che vedeva.

«Perché l'ho fatto? Perché sono un documentarista e non potevo non fare un documentario sulla cosa più interessante che mi fosse capitata»
Lo vediamo per l'ultima volta in carrozzina, con un gamba in meno ma un gran sorriso mentre gioca in un parcheggio, il giorno prima della sua morte. Sui titoli di coda scorre la sua esibizione alla libreria Bibli di Roma, dove in duo con un altro chitarrista suona Wish You Where Here.


In serata c'è Effedià, documentario omaggio a Fabrizio De André, con Dori Ghezzi -l'ha prodotto lei- e Cristiano De André in sala. Diretto da Teresa Marchesi, una delle giornaliste di spettacolo del tg3 -sti comunisti, entrano pure nei festival dei fasci-, in cui essenzialmente De André parla sempre in prima persona, in un montaggio di interviste e fuori onda - sempre della Marchesi, che era pure amica- che in realtà se siete amanti de Il Cantautore per eccellenza è probabile che abbiate già visto. Molto bella la parte in cui De André parla con grande affetto e senza paternalismo dei nomadi, dei rom, molto attuale soprattutto, anche troppo visto che la Marchesi non lesina nel farci vedere le immagini del campo rom bruciato nel napoletano in maggio - anche se ci sta, fa bene a farle vedere 'ste cose. Completamente inedita, per me almeno, la parte in cui parla del suo sequestro -di suoi commenti in merito ce ne sono pochissimi- dove arriva a giustificare sentimentalmente, ma non moralmente, i suoi rapitori, vecchi pastori che «una volta vivevano seguendo semplici 24 regole, e poi si son viste arrivare le leggi sabaude, e poi le mercedes» (sì, ok, forse la prende troppo alla larga e poi accelera). Comunque il tutto non regge, troppo televisivo, banalotto, nonostante le parole di De André stesso, che però rischiano di consumarsi se le mandano a ripetizioni, sempre quelle. Per dire, nessuna ricostruzione biografica, nessun approfondimento sulla sua -tormentata- figura. Sembra un santino. Su Youtube si trova materiale a volte più interessante-qui vi metto un bel video.


Nella sezione dedicata a "Fabrizio e gli altri" -una cosa del genere- mica c'era, per dire, un Villaggio che raccontasse gli scherzi giovanili e le scorribande da discoli, o le comune passioni giovanili -e per De André non solo- anarchiche. Mica hanno intervistato Massimo Bubola, suo grande collaboratore con cui scrisse fra le altre Don Raffaé, Fossati o De Gregori, che hanno entrambi scritto un album con lui -ma pare che abbiano litigato con De André all'epoca ed ora la Ghezzi continui, dato che non li ha invitati nemmeno nell'omaggio del 2000. Od anche il grande Massimo Pagani, suo arrangiatore, musicista, co-compositore, uno che ha messo in piedi al 50% quel capolavoro incredibile che è Creuza de Ma. Od anche lo stesso figlio lì presente, Cristiano, fine musicista, che ha suonato col padre dal vivo e non solo per più di un decennio. No, non hanno intervistato questi, ma Fiorello, che non l'ha mai conosciuto, e che ne canta una canzone.

Unico altro momento degno di nota è Wim Wenders, che si dichiara suo grandissimo fan, che lo "equipara" a Leonard Cohen, Van Morrison e Brassens (non mi ricordo se ha detto pure Dylan), e racconta del suo incommensurabile amore -ne ha usato una canzone nella colonna sonora del suo ultimo film su Palermo-, di come tenti di esportarlo in giro nel mondo. Addirittura di come un grande produttore di rock americano -non ricordo il nome- sono anni che tenti di organizzare un grande concerto tributo a New York con artisti internazionali.

A tarda serata c'era anche il film tratto dal romanzo di De André, intitolato Amore che vieni, Amore che vai. Ma ho temuto una bufala, e sono andato a vedere Pride and Glory con Colin Farrell, Edward Norton, e Join Voight. Il regista non so chi sia e non lo voglio sapere, che é un film inutile, storia di poliziotti corrotti in cui svetta Norton, ma che è uno spreco di telecamere, di interpretazioni e di stereotipi, ché Hollywood c'ha proprio soldi da buttare per questo film né bello né brutto, inutila appunto. Forse questa deve essere una nuova moda, una nuova estetica, l'inutilità, ma purtroppo non sembra consapevole, ché sarebbe meglio.

Frammento de sinistra: Renzo Rossellini, fratello di Gil, che ricorda come Gil abbia fatto questo documentario per far sì che il nostro sguardo spaziasse sulla condizione umana di molti, su cosa succede nel mondo. Ed al che sottolinea come ora ad esempio non si possa non guardare a quanto stanno facendo gli studenti, gli universitari, gli insegnanti.

Frammento cinephile (du role): qui il ruolo è quello del medico, che accorso da uno dei due svenuti durante la proiezione di Kil Gil, commenta divertito «Beh, si vede che il film funziona»

30 ottobre 2008

Diario del vostro blogger infiltrato al festival del film di Roma 2008 - giorno 7

7° giorno Martedì 28 ottobre


Alle 3 o giù di lì ho visto El ùltimo truco. Emilio Ruiz Del rio. Un excursus su uno dei vecchi artigiani e maghi degli effetti speciali ma molto normali e comuni nel cinema, scomparso poco dopo la realizzazione di questo documentario a lui dedicato. Per quasi cinquant'anni -forse 60 in realtà- ci ha fatto credere e vedere di tutto sullo schermo, usando solo i suoi modellini e la sua pittura. Dai peplum a Dune, in più di 5oo film, passando anche per mastro Orson Welles, Il Dottor Zivago e Il Labirinto del fauno di Guillermo Del Toro, quest'uomo qua, Emilio Ruiz, ha fatto cose incredibili, prendeva dei modellini, fatti da lui, studiava l'inquadratura della telecamera e li posizionava, dipingeva e contornava in maniera tale che si integrassero con la realtà perfettamente. Purtroppo in rete non si trova un dannato video che mostri il tutto, ed è un gran peccato perché io non son sono bravo a spiegare con ste misere parolequanto ho visto, e ridarvi soprattutto quel senso di meraviglia, anzi maraviglia, che come un bambino m'aveva circondato. Qui ci sono delle foto trovate in giro ma non rendono, sorry.















Insomma io dopo questo documentario non guarderò più al fondo di un'inquadratura alla stessa maniera. Quest'uomo era un geniaccio, artigiano, regista, fotografo, pittore, creava questi effetto speciale che si chiama cinema tutto in diretta, tutto già nell'inquadratura, senza nemmeno un po' di lavoro in postproduzione come si fa ora col digitale.
Ed il povero Emilio, qui nel film vecchio lucido e simpatico ancora al lavoro ed ancora col tocco del mago, non ha quasi mai ricevuto il reale merito del suo lavoro, ché nessun produttore voleva che si sapesse che quel castello inquadrato là, quella città araba, o Parigi, o l'assalto al vascello dei pirati, fossero realizzati con legno, pupazzetti e taaaanto ingegno che manco vi immaginate. Per dire, una volta ha fatto un'arena romana sovrapponendo il complicattisimo modellino ad un'arena di tori di cui si vedeva solo il campo, e visto che serviva anche il pubblico ma non c'erano soldi, prese dei pupazzi, li attaccò a delle molle e li fece muovere con il ventilatore. E nel film tutto funziona, grazie al suo occhio da macchina cinematografica, ai suo trucchi che sono cinematici, funzionano solo per la lente dell'obbiettivo, ma diamine se funzionano.

Successivamente un altro omaggio, al grande Nino Manfredi, con la famiglia in sala, oltre al grande Luigi Magni -un po' rincoglionito, ma comunque con qualcosa da dire, dice pure che ha scritto un romanzo che sta per uscire con Marsilio- o l'eccelso Trovajoli. Hanno fatto vedere dapprima L'avventura di un soldato, mediometraggio (se 20 minuti sono un mediometraggio) del 1962 prima regia di Manfredi, tratto dal racconto omonimo di Calvino, che, riportava la moglie di Manfredi, pare ne fosse rimasto estasiato. Non a torto, Manfredi, pur venendo dal doppiaggio e dalle varie voci possedute, costruisce un racconto silente, dove non pronuncia una singola battuta, dell'incontro sensuale fra un soldato ed una vedova su di un treno che si muove per il basso lazio. Ne avevo visti dei pezzi, credo su La7, nei vari ricordi di Saturnino Manfredi -a me m'ha sempre ispirato affetto, per quel suo essere un po' contadino, un po' con la faccia ingenua ma volto sveglio, ché proprio con Magni fece Pasquino, diamine!-, ma devo dire che merita di essere visto nella sua interezza, proprio bello, di gran precisione, nulla è casuale nelle immagini, tra il didascalico e l'ironico. Perfino vario, ché essendo praticamente ambientato in uno scompartimento non è proprio facile. Insomma da vedere, sta nel film a episodi L'amore difficile.

Il tutto è stato seguito dalla proiezione dell'ultimo film (2003) di Manfredi, praticamente mai arrivato in Italia, una produzione spagnola -si dice così- dal titolo La Luz Prodigiosa. La storia di partenza non è male, si parte dall'ipotesi fantasiosa che Federico Garcia Lorca, dopo la fucilazione da parte dei Franchisti, ferito e in fin di vita, venga salvato da un giovane contadino, che lo cura e lo rimette in sesto, sebbene la ferità alla testa lo abbia reso incapace di ricordare, di comunicare, ridotto a delle farneticazioni. Lasciatolo in ospizio per poveri il giovane parte per la guerra. Stacco, cinquant'anni dopo, il giovane è diventato vecchio e va in cerca di quel pover uomo, ribattezzatto "Tartaruga" visto che nessuno sapeva chi fosse. Tartaruga è ovviamente Manfredi, ridotto qui a vagabondo, a mendicante fuori di testa e ancora totalmente ignaro di chi fosse -anche qui un ruolo quasi silente, ma Manfredi a quell'età lo rende credibile, il che non era facile-, e di qui si parte alla riscoperta del suo passato. Peccato che sia girato un po' troppo come una fiction, che il doppiaggio degli altri personaggi sia agitato, non credo tanto corretto seppur non ho idea della recitazione originale. Comunque qualcosina questo film ce l'ha, forse il solo Manfredi o per lo meno il mio affetto di spettatore per lui, ma non credo


Dopo di ciò c'è stato l'incontro con Mr Michael Cimino, un geniaccio che fra le altre cosa ha fatto fallire la United Artist con il suo i Cancelli del cielo -sta cosa la si dice sempre, ma mo vedete che c'ha a che fare con quello che sto per dire. Cimino sta messo male, male assai, la pelle sembrava di plastica -forse tutta rifatta, forse è malato grave-, i capelli finti, sempre gli occhiali addosso come a proteggersi gli occhi, era vestito molto da giovane, ma si vedeva che non stava granché e lui stesso ha parlato di operazioni - tra cui una alla corde vocali- che gli impediva di tenere l'incontro parlando. Comunque potete vedere il tutto da voi qui nei vari video di Repubblica. Al che ha portato un montaggio di scene di ballo e canto da vari film, senza nulla di intellettuale o di particolarmente pensato, ha ripetuto più volte. Insomma, un'ora di corpi danzanzti e canatanti giusto per il nostro «amusement», specificando anche qui più volte che Mr John Ford diceva che tre son le cose che è bello riprendere al cinema 1)cavalli in corsa 2) una coppia che balla 3) una grande montagna, e lui, Cimino, ha scelto la seconda.

Belle scene, da Gigi di Vincent Minnelli, a un po' di Ginger Rogers e Fred Astaire -quando hanno cantato e danzato Isn't A Lovely Day ero quasi commosso, di qui la riproposizione qui sopra-, una sola spruzzatina di Gene Kelly, che è un peccato, e poi Visconti con il Gattopardo, e Fellini con lo Sceicco Bianco. Anche suoi due film, il Cacciatore ed I cancelli del cielo. Poi Bob Fosse con Cabaret, in particolare la scena famosissima di Money, e varie scene da Carmen di Carlos Saura che gli deve essere piaciuto assai assai e vi metto qui sotto, e poi tanti altri che non ricordo.



Molto piacevole questo montaggio, nulla di più, ma comunque non è poco. Dopo tutto ciò ha interagito, ma poco poco, con il pubblico, ed alla domanda perché siano 12 anni che non fa un film, rammaricandosi di come Ford ne facesse tre all'anno, ha detto testuale che non è per mancanza di tentativi, ed ha fatto capire che non glieli fanno fare -capito il perché dicevo quella cosa del fallimento della United Artist?.

Dopo, a tarda sera, sono andato a vedere Easy Virtue, non so perché c'era Jessica Biel, ma soprattutto perché il regista è Stephan Elliot, quello di Priscilla, la regina del deserto, ed è pure tratto da una commedia di Noel Coward del 1926, peraltro messa in scena con un film muto già da Hitchcock. Ed effettivamente il testo, l'idea, le battute ed il ritmo non sono male, è la storia dell'incontro scontro fra una dinamica, moderna pilota automobilistica americana -la Biel, bella, che dire, e pure un po' brava- e la famiglia e la realtà dell'aristocrazia -o roba simile- campagnola inglese da cui proviene il suo giovanissimo sposo, ah, il tutto ovviamente negli anni '20. La suocera, guarda un po', è in particolare la sua avversaria principe, interpretata da Kristin Scott Thomas, di sicuro la migliore del film. Che dire, Elliott è bravo, scegli un taglio ironico per ritrarre questi roaring twenties in modo molto patinato, con parecchi giochi di specchi e inquadrature d'ambiente che d'ambiente non sono, ovvero che con macro strane, movimenti di macchina e fotografia fanno parlare abbastanza gli oggetti di quegli anni. Contemporaneamente al film manca qualcosa, forse in parte anche al testo un po' prevedibile seppure molto brillante, da commedia di una volta tutta basate sulla parola. Insomma, non ho ancora capito se mi è piaciuto.

29 ottobre 2008

Diario del vostro blogger infiltrato al festival del film di Roma 2008 - giorno 6

6° giorno Lunedì 27 Ottobre

Il 6° giorno -non il settimo per non sembrare arrogante - mi son riposato, dal festival, ché son andato a lavorare (altrove). Quindi solo due proiezioni serali. Prima di tutto JCVD di Mabrouk El Mechri, liddove JCVD altri non è che Jean-Claude Van Damme, un divertito ed ironico film, un po’ finto documentario, tutti a dire mockumentary, ma nemmeno troppo, che a me è parso un film narrativo, solo che il protagonista è Van Damme in quanto Van Damme, la movie-karate-star, insomma un intreccio fra realtà e finzione, che racconta di un intreccio fra realtà e finzione. Per una serie di sfortunati e folli eventi Mr JVCD viene creduto il responsabile di una rapina in un ufficio postale, con annessi ostaggi e barricamento all’interno. In realtà Jcvd è solo uno degli ostaggi a sua volta, ma il fraintendimento viene usato dagli stessi rapinatori, con annesse folle reazioni di stampa e polizia.

L’idea è buona, la realizzazione anche -bello il piano sequenza iniziale che smonta da solo qualche decennio di action movie-, forse però il tutto non regge la durata del film, che alla fine si sente un po’ di vuoto, tranne un bel monologo senza senso di Jcvd che merita. Diciamo che l’ironia va un po’ scemando. Comunque non male.

Nulla comunque al confronto rispetto all’altro film della serata -sempre della sezione Altro Cinema, ché quasi sto vedendo solo quelli-, ovvero Stolen Art di Simon Backès, che a proposito di realtà e finzione si rivela disarmante, aperto, volutamente non conclusivo ma lucidissimo pro-vocatorio, stimolante come pochi.


Il regista stesso va in cerca nel film di tracce e protagonisti di una esibizione del 1978 dell’artista ceco Pavel Novak a New York, dal titolo Stolen Art appunto, in cui venivano esposti capolavori della storia dell’arte, Rembrandt, Courbet e Malevich tra gli altri, sostenendo che fossero gli originali e che il suo autore li avesse sostituiti con delle copie perfette, il che lo costrinse a scomparire per non rispondere di quelle sue auto-accuse. Na roba geniale, in nome della riappropriazione dell’arte da parte dei suoi fruitori, che mette in reazione chimica, in una pozione unica l’arte con il concetto di falso, di copia, e quello di proprietà, di copyright. Barkes va in giro per i musei internazionali, con la sua camera commerciale digitale Sony (gliel’ho dovuto chiedere con che l’avesse girato), a vedere -e sul come affronta il tema dello sguardo, come furto, ci si potrebbe scrivere un libro- le varie opere che componevano l’esibizione di Pavel Novak. Interroga i direttori dei vari musei, tutti ignari della vicenda -l’unico che reagisce male, mi pare del Musée d’Orsay. guarda caso è l’unico contattato al telefono e che non vediamo di persona...). Ritrae le opere stesse, con immagini bellissime, che scavano nei quadri, con questi colori sparati del digitale. E poi ci sono i vivissimi gesti del curatore del museo Rembrandt Research Project, che dinanzi ai quadri del pittore che studia da 3 o 4 decenni, candidamente ammette che, sebbene non creda quei quadri siano falsi, dati gli esami radiografici e sul legno effettuati, la (sua) percezione è così carica di abitudine, interpretazioni, che potrebbe sempre sbagliarsi.

Il tutto ripreso e narrato con grande calma, quasi freddezza direi, che qui il riferimento è ovviamente F for Fake di Orson Welles, che invece era un film sornione, tutto sull’estremo filo del gioco di prestigio che sta per svelarsi, e preso da grande eccitazione. L’indagine alla ricerca di Novak e della verità -su tante cose, non solo su Noval ed i suoi dipinti- continua poi, con incontro con l’unico testimone vivente dell’esibizione -di cui vengono mostrati filmati amatoriali dell'epoca mooolto sfocati- ovvero mister transavanguardia Achille Bonito Oliva, che conferma il tutto oltre a spargere interessanti -ma non tutte condivisibili- riflessioni sul ruolo di creatore e critico. E proprio con il critico curatore della mostra originale si conclude il film, dove il paradosso che sottilmente è al fondo ed al centro del film emerge, coinvolge il film stesso, che questo è il cuore ultimo, la verità paradossale che mette in scena. Insomma vedetelo-non so come si possa procurare in realtà-, parlatene al bar, agli amici, io ci ritornerò sopra a breve, ché ho avuto la possibilità di fare una domanda al Simon Backès (gli ho chiesto appunto di quanto il suo film fosse coinvolto dal suo -di Pavel Novak- paradosso, ovvero gli ho chiesto se il film appena visto fosse suo o meno, e se sì in che senso? Ha risposto tenendo aperto la mia domanda, ma riempendola di contenuti) e rincontrandolo mi ha gentilmente dato la sua mail, così da potergli mandare qualche mia breve divagazione al riguardo.

Frammento cinephile (du Role) ma anche trash: una credo appassionata di Van Damme, uscendo dalla proiezione, notava con un sodale come in ogni film del suddetto ci sia un riferimento a Steven Seagal. Qui si parla di come JCVD perda il ruolo di un film andato a Steven, visto che ha promesso di tagliarsi il codino.

Frammento trash e cinephile: sempre in JCVD «Ehi, lui è Van Damme, quello che ha portato John Woo ad Hollywood, senza di lui starebbe ancora a riprendere piccioni ad Hong Kong»

Frammento di sinistra: non pervenuto

Diario del vostro blogger infiltrato al festival del film di Roma 2008 - giorno 5

5° giorno Domenica 26 Ottobre

Giornata ricca ma di cose dal valrore medio, un po'di cassetta, sarà che è domenica, so stanco e finisco dove tira il vento, il rullo. Alle 15 c’era Cliente di Josiane Balasko, attrice e regista francesce. Proprio un bel film, gradevole, una commedia ma non solo in cui tutto funziona, compresa la Balasko che fa la sorella della protagonista, una bravissima Nathalie Baye, cinquantenne matura, televenditrice di successo (!), ancora bella, che delusa e un po’ cinica le uniche relazioni che ha con gli uomini sono con dei gigolò (ho cercato l’etimo senza successo), che fa più bello di prostituto. Incontrerà Patrick-Marco, di cui diviene cliente fissa, affezionata, con progressivo trasporto anche da parte di lui, imbianchino della periferia, che si prostituisce, fa l’escort come si dice adesso, con signore attempate per pagare il mutuo del salone da parrucchiera della moglie. E di qui parte il tutto, con ironia, senza essere mai pruriginoso, con punte di femminismo, momenti stralunati tra il mondo della tv e quello della perifieria-quasi-banlieu. Il pubblico in sala ha gradito parecchio, pare che sia infatti già un successo in francia, quindi qui arriva di sicuro, ed è giusto così, che un film che è bel un film, nulla di più e nulla di meno, è quasi una rarità.

Poi nel pomeriggio, sempre organizzato dalla sezione Altro Cinema che è quella di Greenaway, Cronenberg, Assayas, incontro con Servillo e Verdone, e quest’inedito Verdillo suona strano ma ha funzionato. Che ha detto Mario Sesti -il critico che dirige Altro Cinema- che un paio d’anni fa chiese a Servillo con chi si voleva incontrare per un “duetto” e lui gli disse “Verdone, ne sono un fan scatenato”, e viceversa Verdone “con Servillo, uno degli attori più misteriosi di adesso”. L’uno ha scelto delle sequenze dell’altro da presentare e commentare, ed a parte i panegirici di rito, pare che davvero Servillo sia un fan, rideva come un matto, e pure Verdone non è stupido -che si sapeva- ma si muoveva anche lui con discreta comodità nel parlare dei pezzi di Servillo -si veda il frammento in fondo. Si è partiti tra l’altro con una scena di Sabato Domenica e Lunedì di Eduardo De Filippo, con la regia teatrale di Servillo e quella televisiva -bellissima- di Sorrentino. Da recupare sul mulo mi sa. Servillo ha intellettualeggiato, sornione, leggendo e tinteggiando il ruolo della “maschera” Verdone, della sua capacità di costruire il noi dell’identificazione, del rispecchiamento, creando personaggi e persone etc etc. Diciamo che Servillo potrebbe leggere anche il menù (ok, non proprio come Gassman) ed il pubblico sarebbe catturato. Verdone si è fatto abbastanza valere, a dirla tutta con il pubblico c’aveva pun rapporto più diretto, tranquillo, parlava come magna, o come recita più o meno, che alle volte Servillo esagerava e non è che stesse dicendo granché. Certo che poi però quando partivano le scene la differenza si notava, ma Verdone a volte, con quella comicità un po’ sempre uguale, se la cavava -il pubblico era preso quasi parimenti da entrambi.

Alle 20 o giù di lì è stato il momento The Duchess, film con Keira Knightley su una parente fine 1700 di Lady Diana, con storia molto simile, matrimonio rovinoso per colpa del marito nobiluomo infamone, lei che crede tanto all’amore, e si innamora di un altro, ma lui la ricatta bla bla bla ed annessa condizione femminile tremenda dell’epoc, tutto sempre a livello degli iper-nobili, ché della condizione femminile delle mogli dei mugnai di fine settecento non ne filmano manco una. Comunque, film inutile, ma proprio inutile assai: Keira Knightley, oltre a non saper molto recitare, c’ha due sopraccigli che fanno paura. Il di lei marito, duca di qualcosa, è il principale sostenitore dei progressisti dell’epoca, i whigs, ed il tizio futuro primo ministro di cui lei si innamora ad un certo fa un discorso pari pari a quelli di Obama, con robe tipo «All we need is change! We’ll bring UK in to brave new world, a fair world, a free world...», il che era un pò inquietante.

Al che, preso dalla scoramento, per non tormarmene a casa incazzato come una dama del 700, mi sono andato a vedere la prima di Good, film con Viggo Mortensen che era presente lì in sala, arrivato con mezz’ora di ritardo perché in passerella, sfoderando pure un po’ di italiano, ha firmato na quantità di autografi impressionante, era disponibilissimo, si divertiva pure, un po’ meno noi che eravamo già nella sala e per di più lo vedevamo nello schermo. Il film è la storia di un professore di letteratura francese nella Germania degli anni ’30, in particolare colà si narra di come, da anti-nazista che era, viene per una serie di eventi e di scelti risucchiato addirittura nelle SS, che pare c’avessero come membri onorari degli intellettuali. Il viaggio verso la perdizione parte da un suo romanzo in cui ipotizza la possibilità dell’eutanasia per chi è affetto da grave handicap o malattia, il che ovviamente piace parecchio al reich, che distorce parecchio l’idea, la fa passare per altri media quali il cinema, coinvolgendo il prof. Il tutto ciò coincide con il suo lasciare la famiglia disastrata -c’ha pure una madre tubercolotica, e di qui un po’ l’idea del romanzo, oltre che una moglie con serie turbe mentali- a favore di una arianissima studentessa biondissima e pure nazistella. L’intreccio non è male, non manca nemmeno l’amico ebreo, psicanalista, con annessi e connessi che credo sappiate, e non sono male nemmeno i momenti di cedimenti psicologici del personaggio, con inserti surreali scatenati da un ricordo di una vecchia canzone (il prof insegnava Proust, tanto per far tornare tutto). Insomma, a parte qualche caduta di stile in alcuni ambienti, non male, forse un po’ troppo freddo, troppo poco drammatico addirittura. E poi io non ho capito perché sto tipo che si chiamava John, che già non so se sia un nome tedesco, lo chiamassero tutti Johnny, che soprannome tedesco non è. A volte effettivamente il tutto sembrava troppo poco tedesco, e molto americano.
Comunque l’unica cosa veramente incredibile della giornata è stato un corto di pochi minuti, un pezzo di animazione italica dal titolo Uccello Fuoco, di Giulio Giannini e soprattutto Emanuele Luzzati. Na roba del 1981, una bellissima favola, raccontata ed illustrata con uno stile che sembrava quello dei disegni dei bambini , animati in maniera molto scarna ma funzionalissima, con un’inventività grafica che mannaggia non vi posso dare i miei occhi o le mie sinapsi neuronali che hanno immagazzinato il tutto. Il tutto condito da una colonna sonora praticamente di musica contemporanea, pianoforte preparato compreso, fatte da Oscar Prudente, me lo son segnato, che in realtà su wiki scopre essere un poppettaro, comunque lì era bravo. Qui ho messo il Pulcinella di Luzzati che Uccello di fuoco non si trova. Comunque godetevelo.

Frammento cinephile (du role): Verdone descrive così il monologo finale di Servillo de Il divo «un gran momento di cinema, metà Murnau, metà Sgt Pepper dei Beatles, pura psichedelia, con quel misto di teatro sperimentale degli anni '70». Applausi

Frammento trash (ma anche un po' cinephile): Verdone parla di come alcuni suoi film siano stati rivalutati negli anni, e di come siano cambiate ed aumentate il numero di stellette, o di palle, date dai vari critici. Al che la vicina di posto di Mereghetti, seduta dinanzi a me, gli chiede quante palle stellette/lui avesse dato al tal film, e lui fa segno di 3, ché evidentemente se le ricorda tutte.

Frammento di sinistra: il monologo di Servillo ne Il Divo di cui sopra

28 ottobre 2008

Diario del vostro blogger infiltrato al festival del film di Roma 2008 - giorno 4

4° giorno Sabato 25 ottobre

Allora la giornata inizia male, con Os Desafinados di Walter Lima Jr,, uno dei tanti film brasiliani, visto che una delle sezioni è dedicata proprio al Brasile. Film cartolina su un -fittizio- gruppo di bossa nova nel brasile degli anni ’60, in cerca di fortune Newyorkesi, con in mezzo pure un po’ di politica e qualche passagio dedicato al Brasile dei generali dopo il golpe del 1964. Un insieme di prevedibili e scontate banalità sul Brasile, sugli anni ’60, sulla musica, insomma su tutto. La colonna sonora è buona, con brani anche originali, ma è molto laccata, quasi finta e con suoni troppo perfetti, freddi, che per la Bossa è un po’ come morire. Il film viene preceduto da almeno 3 o 4 minuti di “con il supporto di” o roba simile, e scorrono simboli di una quantità di industrie brasiliane da fare impressione. Dalle linee aeree alle compagnie petrolifere. Il protagonista è Rodrigo Santoro, visto in 300 (aaargh) dove faceva Serse e soprattutto in Lost (Paulo, quello che stava con Niki poi seppellito vivo). Era presente in sala, da solo perché regista e produttore erano in altri festival a presentare il film -testuale. Almeno ho conosciuto uno dei losties, il che fa curriculum.

Ho lasciato la sala 10 minuti prima per andare all’incontro con Olivier Assayas, con annessa proiezione di L'Heure d'été, il suo ultimo film. L’incontro è stato molto interessante, innanzitutto per i molti di spezzoni di suoi film precedenti lì per lì commentati, molti dei quali non conoscevo affatto, alcuni erano roba veramente tosta, immagini potenti, vive, molto vicino cinema d’avanguardia -si è parlato parecchio di cinema sperimentale anni ’60 americano, ed anche di free jazz punk inglese, davvero, ché Olivier ha confessato come nel suo cinema cerchi di ricreare quella sensazione che da pischello degli anni ’70 gli dava la gran musica dell’epoca, dal punk come detto a tutto il resto, insomma quella musica come “centro della controcultura” in cui si è formato. Ha fatto un po’ impressione che il suo discorso, che molto insisteva su “una riscoperta dell’ordinario” -vabbé lui non lo dice così, ma quasi-, sull’importanza del ritornare sulla prima volta dell’immagine, della rappresentazione che si riferisca di nuova alla realtà e non ad altre immagini, per recupeare visivamente la forza fisica, corporea del film, anche la sua violenza, cercando di raccontarla non lasciandone il monopolio agli americani -cfr. il suo Demon Lover, di cui è stata mostrata una scena di lotta bellissima, confusa e diffusa, od il suo Irma Veg nella cui scena finale è la pellicola stessa ad essere violentata, grattata, macchiata. Il cinema indipendente, diceva, rischia di perdere la dimensione corporea, e quindi il contatto coi giovani che proprio per questo non hanno proprio tutti tutti i torti a rivolgersi agli americanoni. Insomma sembrava la sintesi creativa dei due diversi discorsi portati avanti nei giorni scorsi da Peter Greenaway e David Cronenberg, come gli ha fatto notare anche il critico Mario Sesti. Tra l’altro, come Greenaway, ha Assayas accennato anche al suo essersi molto dedicato in gioventù alla pittura.


Poi si è passati al film, L'Heure d'été, uno in cui, come ha detto sempre lui ché io son solo cronista della realtà, dopo aver esplorato una realtà globalizzata -brutta parola ma lui non l’ha calcata troppo e soprattutto l’ha connotata-, ovvero dopo aver girato in altre lingue, in altri paesi con attori di altre culture, ha sentito il bisogno di tornare a casa, in Francia, per raccontare questa storia familiare, assai bergmaniana come ammesso da lui, delle conseguenze e dirimazioni della scomparsa dell’anziana madre di una famiglia altissimo borghese [Assayas ha di recente perso la madre, ma la storia non è autobiografica, disse lui, ma i sentimenti mi sa di sì, dico io]. Film pacato, classico, in fil di fioretto, quasi minimale a volte, anche se ricchissimo a livello di immagini, grandi attori, fra cui Juliette Binoche, insomma na roba che non ti aspetti da uno così esuberantemente creativo come lui. Da vedere, e non dico di più, che purtroppo ho perso l’ultimo quarto d’ora, che ai festival è così, e soprattutto dovevo andare a vedere Caetano Veloso.

C’era un documentario su Caetano Veloso, Coracao Vagabundo, diretto da un ragazzo Brasiliano che quando aveva iniziato cinque anni fa a farlo c’aveva 22 anni, e mo’ 27 dice lui, guarda un po’, mi sa che compie gli anni tutti gli anni, certo che però ne dimostrava 15, ma questa è un’altra storia. Comunque mr Caetano Veloso -ché tanto sapranno benissimo chi è, quindi non ve lo dico- nel corso delle sue scorribande nel mondo per i vari tour viene ripreso a parlare di Brasil (nannara nara naranà), musica, film, di Antonioni -che c'è nel film- e Professione reporter, un pò ma non troppo dei cavoli suoi, della sua antireligiosità -eravamo all’auditorium di via della conciliazione e dopo st’affermazione temevo arrivassero i marines del prospiciente Vaticano, ma per fortuna no. Nulla di trascendentale che Caetano mica è un saggio, ci tiene a dirlo pure lui, però si faceva guardare, lui è molto marpione, un po’ presuntuoso -voce di popolo- e con una grande classe, molto elegante, poi quando cantava era un piacere assai piacevole. Il pischello regista poi se la cavava, ed alcune immagini erano interessanti, dei fuori fuoco o anche solo gli sguardi nelle metropolitane delle varie città. Il momento clou, oltre alla comparsa a New York del di lui amico David Byrne (lo amo) è quando un monaco in un tempio buddista lo riconosce e gli dice che lì, nel tempio, ascolta sempre le sue canzoni, in particolare gli dice proprio Coracao Vagabundo -ah, pare che in Giappone facciano come dessert esclusivamente una pasta di fagioli (?!) rosa shocking che a Caetano, e credo pure a me, non piace.

Ma il vero clou del clou è stato quando è arrivato Caetano in persona, lui proprio lui, e dopo aver maltrattato un poquetinho la giovane interprete -sì, un pochino, ma poco, è spocchiosetto- ha fatto un pocket show -sì dice così- per noi, chitarra e voce. Quaranta minuti di gioia, ché quando ha fatto Desde que samba è o samba quasi mi alzavo -ero in 5a miracolosa fila- e lo abbracciavo. Ha fatto pure Cucurucu Paloma, e poi i due standards americani Body & Soul e Love for Sale, quest’ultima con la sola voce -a cappella dicono quelli bravi. Faceva parecchie piccole stecche con la chitarra -nel film stesso sosteneva di non essere un grande chitarrista- ma ha retto come pochi si possono permettere così a nudo, Voz & Violao come si intitolava un album di Joao Gilberto. Ha una voce incredibile, calda e profonda, ma capace di falsetti chiari e limpidi, e poi modulava sempre le notte, interpretava il tutto. Ha cantato pure una sua bellissima canzone omaggio ad Antonioni ed a lui intitolata, un po' ardita e dissonante, un po' ermetica, un po' dolce. Un grande. Certo poi non è uscito nonostante un acclamazione clamorosa -ehm-, ché il pubblico era in deliquio, e non ha fatto il bis. Comunque io ci voglio bene uguale a Caetano Veloso.

il Frammento de sinistra oggi è in vacanza

Frammento cinephile (du role): Olivier Assayas,
Olivier Assayas, lui tutto intero, altro che frammento-che poi wiki ti dice che il padre era sceneggiatore e lui a 25 anni scriveva sui Cahies Du Cinema, e dici, vabbè.

Frammento trash: la sequenza di Os Desafinados in cui Rodrigo Santoro si butta sul letto, braccia aperte e sorriso deficiente, urlando “I’m in Heaven”. Ora capisco perché l’hanno ammazzato subito in Lost.

Frammento iper-trash: il pubblico all’incontro con Assayas che scalpitava, che voleva smettesse di parlare e si passasse al film, così da evitare che si sovrapponnesse a quello delle 8, presumibilmente The Duchess (ne parliamo domani, e spero suoni minaccioso). Insomma sti tizi si son pure messi a protestare platealmente. Che vergogna

27 ottobre 2008

Diario del vostro blogger infiltrato al festival del film di Roma 2008 - giorno 3


giorno Venerdì 24 Ottobre

allora oggi la sinistra non è stata un frammento, è arrivata la protesta universitaria, si è fatta sentire, vedere. La protesta, credo lor signori lo sappiano, è contro l’obbrobriosa demolizione dell’università pubblica-legge 133- che fanno passare come riforma. Non mi dilungo ma qui trovate varie informazioni.

All’inizio, quando è arrivata l’Onda- così si son ribattezzati- ero in sala, e ci sono stati -mi è stato riportato- scontri, nel senso che la polizia ha impedito con manganellate l’ingresso al gruppo che accoreva, insomma la polizia ha menato. Poi la situazione si è un po’ tranquillizzata, quando sono uscito io erano tutti seduti davanti all’ingresso-con la libreria che intanto aveva tirato giù le serrande, e non faceva ‘na bella impressione- bloccando il tappeto rosso e parte dell’accesso, chiedendo di poter entrare tutti in nome della cultura libera per tutti. L’entrata del pubblico al festival non era comunque ostacolata del tutto.

C’era parecchia gente, parecchi ragazzi, ma davvero non saprei quantificare quanti fossero i manifestanti, pure lo schieramento delle forze dell’ordine era notevole, faceva decisamente impressione. Credo che nessuno dall’auditorium o degli organizzatori sia uscito a parlamentare, a concordare qualcosa, se non qualche dirigente digos chiaramente identificabile -c’hanno una faccia tutta loro, quelli della digos. Purtroppo nessuno volantinava o spiegava al pubblico esattamente per che cosa si protestasse, molti non lo sapevano e mi son trovato io stesso a raccontarlo a qualche signora di una certa età. La cosa -per me- inquietante è che alcune delle facce dei leader -quelli con il megafono e che parlavano con la polizia- erano le stesse di quando 7/8 anni, matricola, mi trovai ad occupare l’università, ed era gente già grande allora. Uno in particolare, che poi sapevo fosse diventato il capo -mi sa che lui non accetterebbe la definizione, ma è così- di Action, quelli che si occupano di occupazione di case e di problemi abitativi, era chiaramente quello che gestiva il tutto. N’altra cosa che mi ha turbato parecchio -c’ho lo stomaco troppo delicato- è che ogni qualvolta venisse declamata a mezzo megafono una bella notizia -«due studenti sono entrati ed hanno appeso uno striscione»-, il pubblico, ehm, mi è venuta da sè, diciamo i manifestanti che è meglio, urlava una cosa tipo «Ugh! Ugh! Ugh! Ugh!», ripetuto anche di più. Che a me sembrava na cosa tra un verso scimmiesco -sarà na polemica pro-evoluzionista???- e na citazione di 300, quel filmaccio infame che puzza e strapuzza di fascismo. Boh, a me sto verso di acclamazione e consenso non m’è piaciuto affatto. L’assembramento -si dice così, no?- si è poi sciolto pacificamente, al rilascio dei ragazzi fermati -sì, ne avevano fermati alcuni- dopo un’oretta e mezza e poco più.

Oltre che a passeggiare tra i manifestanti, a sentire che dicevano -stavo per sedermi fra loro, ché di fondo son molto d’accordo, ma qualcosa m’ha trattenuto- ho pure visto un po’ di roba.

Innanzitutto 9.99$, un bellissimo film in stop-motion -tipo Nightmare Before Christmas, per intenderci, o Wallace e Gromit. una produzione israelo-austrialiana, con alle voci grossi nomi come Anthony La Paglia o Geoffrey Rush. E’ un incrocio di storie, fra il (molto) surreale ed il realistico, di vari abitanti di un palazzo, per cui la regista Talia Rosenthal si è ispirata ai racconti di Edgar Keret -che mo’ mi andrò a recuperare, perché non so chi sia ma da questa riduzione cinematografica pare meritare parecchio. Poetico, goffo, asciutto e sottile racconto, con un barbone che diviene angelo, un uomo che decide di perdere la propria forma umana, la propria struttura ossea, per amore di una donna che detesta ogni asperità, e si trasforma per lei in una sorta di poltrona... Insomma, speriamo esca in sala. A me m'ha incantato, per questo mondo che mi ha ricordato i mondi che mi costruivo da bambino, con i playmobil e con i lego, ma qui è plastilina, che si anima per davvero, come sul tappeto di casa a rotolarsi ed a far le voci, anzi meglio, i pupazzeti qui diventano personaggi e ricevono non solo vita e movimento ma anche poesia ed umori ed umorismo.

Poi c’è stato l’omaggio a Steno, con Steno Genio Gentile, un documentario su Stefano Vanzina (sì, è il padre), regista di tante commedie italiche, da quelle di Totò - con Fabrizi- a quelle di Sordi - Guardie e LadriUn americano a Roma- e di roba più recente ma comunque decente -Febbre da cavallo su tutte. Ne è uscito fuori uno strano ritratto, con interivsta a Kezich, a Furio Scarpelli, a Monicelli e molti altri: un uomo riservato ma di grande capacità umoristiche e di scrittura, che comprendeva gli attori comici e le loro necessità come pochi, fossero anche una camera fissa e non dare mai lo stop per vedere dove andavano a parare. Era anche un uomo di sorprendente cultura - Sellerio ha pubblicato un suo diario giovanile che pare meriti- e tutti lì a sottolinearlo, figli compresi, come se dovessero nobilitarlo, e non bastassero a mostrarne la bravura, la statura umana, alcuni spezzoni di suoi film che a decenni di distanza rimanevano esilaranti. Si era formato al Marco Aurelio, la rivista satirica in cui gli furono sodali Fellini, Scola, Marchese -peccato che da altre riviste tipo il Male, Frigidaire e roba simile, quelle a cavallo fra i ’70 e gli ’80, non siano usciti cineasti. Bella la ricostruzione da parte di Monicelli della prime collaborazioni insieme, del cinema negli anni ’40 che tentava di ricostruirsi e di ricostruire l’italia. Insomma è stato più interessante di quanto credessi, e perfino i commenti dei figli erano sensati, interessanti, il che è tutto dire. Ah, pare che scappato a Napoli nel ’44 Steno facesse per Radio Londra l’imitazione di Mussolini, imitazione che pare allora fosse molto popolare, purtroppo non ne restano tracce.

Poi ho visto 8, gli 8 corti di altrettanti registi ad illustrare gli 8 Obbiettivi di Sviluppo del Millennio. Otto impegni che tutti i nostri governanti in sede Onu presero nel 2000 e che volevano realizzare entro il 2015, ma praticamente non si è ancora fatto nulla contro la povertà, o lo sfruttamento dei minori, il maltrattamento delle donne, il riscaldamento globale... In realtà io nemmeno ero a conoscenza del fatto che avessimo preso questi impegni. Ad inizio film l'Onu stessa che l'ha prodotto si dissocia da quanto gli 8 registi ci mostrano, ovvero critiche nette al mancato rispetto di questi impegni.

Ci sono alcune perle, come quello di Jan Kounen,(qui sotto il making of trovato in rete) che racconta la maternità sulle rive di un fiume amazzonica. Una ballata di dolore, acque rotte e navigate, di dolori antichi e pianti moderni, con un bianco e nero lucido, convinto, e partecipe, che avvolge.



Ancora poi, a firma Gaspar Noé, il racconto in prima persona dalla vera di voce di un malato di Aids del Gabon, che con voce off, e primi piani intensi dei suoi sguardi, dei suoi movimenti, si presenta e si racconta mentre sotto, il rumore di un battito pulsante non abbandona lo spettatore. Molto bello anche il primo episodio di Abderrahmane Sissako, il suo squarcio sulla vita di una poverissima bambina etiope, molto morigerato e sentito allo stesso tempo, senza non solo retorica ma nemmeno indulgenze o scivolamenti che sarebbero facili. Quello di Wenders invece, sul microcredito, parte alla grande, vedendo le manifestazioni anti G8 tedesco del 2007 dalla sala di montaggio di un televisione, chiarendo bene le dinamiche alla base delle notizie, e con questo forte contrasto tra questa sala asettica e tutto ciò che succede ed è successo fuori. Poi però diventa iper retorico, insomma esagera, calca la mano facendo uscire dagli schermi di montaggio i personaggi del 3°mondo. Uno spottone insomma, un po’ voluto. Comunque fra Gus Van Sant che usa gli scarti di Paranoid Park per parlarci di infanzia con secchi numeri proiettati sulle evoluzioni di giovani skaters, una Jane Campion tra l'apocalittico e l'ispirato che non perde però di vista l'umanità della tragedia climatica che racconta, l'attore Gael Garcia Bernal che qui come regista non è male con una straniante Islanda ed un dialogo a molta distanza fra padre e figlio, e nonostante una scialba Mira Nair, il tutto alla fine si regge e si fa vedere, e qualche messaggetto, roba tipo sms, passa.

A tarda sera Le barrage contre le pacifique di Rithy Pahn, tratto dal romanzo di Marguerite Duras, con Isabelle Huppert. Un film discreto, in ambo i sensi, che tratteggia con troppa distanza i complicati ed impastati rapporti fra questa madre francese ed i suoi due figli, maschio e femmina, nella Cambogia coloniale alla ricerca di un riscatto, di una possibilità nuova di vita grazie ad una risaia acquistata con grandi stenti. I paesaggi son bellissimi, i locali tratteggiati con grazia e sincerità, ma alla fine il film non prendeva, c’era poco da fare

Frammento (dalla manifestazione) di sinistra: maglietta con scritto “Non è tutto loro quel che luccica”.

Frammento trash: Ettore Scola che dice che i due Vanzina stanno proseguendo il lavoro del padre e della commedia all'italiana.

Frammento cinephile (du role): Ettore Scola -sempre lui- che se la prende un po' con Monicelli per non essere in sala all'omaggio a Steno, e ricorda con un po' di astio che Monicelli da giovane non era affatto così libero e coraggioso come l'è adesso da vecchio, ma che per loro giovani cinematografari il riferimento era piuttosto Steno -i panni sporchi si lavano ai festival oramai.

25 ottobre 2008

Diario del vostro blogger infiltrato al festival del film di Roma 2008 - giorno 2


2° giorno Giovedì 23 ottobre

Oggi ero stanco, che già al secondo giorno mi piglia così, e soprattutto stamani c’era un film italiano, quello di Maria Sole Tognazzi, Un uomo che ama, e per fortuna avevo da fare perché le voci che girano al festival è che non fosse granché-commento sentito: “il film è quel che è”. Certo, c’era Monica Bellucci... Più che altro ho limitato le escursioni all’auditorium a due incontri di rilievo, ovvero mr David Cronenberg and sir -non so se lo lo sia, ma se lo meriterebbe- Peter Greenaway.

Alle 17 Cronenberg ha incontrato il pubblico. Era parecchio in forma, tranquillo, pure troppo, quasi Zen -altra voce di popolo. 
Filosofeggiava per buona parte della conversazione, che era inframmezzata da spezzoni dei suoi film. Il tutto è iniziato con una domanda da parte dei critici che mr Cronenberg deve aver sentito parecchie volte, ovvero se sia più spaventevole il mostrare od il nascondere nel cinema. E lì mr David si è scatenato, ha detto che sta storia del celare, del non far vedere che crea più paura, è una bufala, ché quello che è considerato il suo massimo esponente, Alfred Hitchcock, in realtà aveva semplicemente il problema della censura, e quando poteva (Frenzy) indugiava anche lui di particolari. Questo confronto con il maestro Hitchcok è tornato anche un’altra volta, quando ci ha tenuto a sottolineare -insomma se ne vuole distinguere parecchio- che Hitcock usava definirsi un puppets master, un burattinaio, uno che tirava i fili degli spettatori, che li faceva ridere, piangere, sobbalzare, preoccuparsi quando lui voleva che lo facessero. Cronenberg sostiene invece di lavorare a partire da sé, di cercare, senza saperlo prima, che cosa lo possa spaventare, far pensare etc. Ha definito i suoi film delle sorta di philosophical voyages, viaggi filosofici, ma detto con garbo, senza arroganza, sempre molto distaccato -è canadese, ma potrebbe sembrare un americano costa ovest, rilassato, tranquillo e liberal, con famiglia al seguito. 

Ed il tema della filosofia è poi tornato spesso, soprattutto quando ha esplicitato la sua “estetica”: lo splatter, i l sangue, le viscere ed i mostri ed incuibi esibiti con grande inventiva nei suoi film, nascono da una consapevole attenzione al corpo, alla corporeità come vera condizione dell’essere umano, alle viscere, al corpo visto anche dall’interno ed alla sua bellezza -detto così sembra quella parodia d’altri tempi per cui il pulp è “sangue e merda”.
Tutta questa attenzione all’elemento organico, il partire da esso per deformarlo, trasfigurarlo od incubarlo, deriva dal suo essere, parole sue, un ateo ed esistenzialista (a suo modo, ci ha tenuto a precisare). E di qui l’attenzione ancora più delirante per le protesi del biologico, ad i suoi prolungamenti, ovvero al massimo dell’umano (dice lui, ma io so pure un po’ d’accordo), dove l’umanità si rivela di più con sogni e desideri, la tecnologia. Insomma era a proprio agio assai, ma così a proprio agio, tra filosofia e cinema, aneddoti e lezioni di vita che pure io, che non è proprio che lo ami alla follia, m’ero fatto prendere.

Fra le domande del pubblico, ripeto, molti dei quali dei veri e propri adepti, una di rilievo è stata quella di una ragazza, purtroppo fuori dalla mia portata visiva ché ero curioso, che era lì con sincerità disarmante, a ringraziarlo di averle cambiato la vita. Investita da «una grossa range rover» nel 1997 (mi pare), ridotta assai male, bloccata e paralizzata (mi pare di aver capito), il di lui film Crash l’aveva aiutata come poche cose, a rimettere a fuoco parecchia roba, e quindi poi a stare anche molto meglio -si è definita una creatura cronenberghiana, carne, sangue e titanio. Era un po’ fuori, ma in un bel modo vivo, parlava con lui -non era proprio una domanda- con foga inevitabile ma anche cordialità, come una che ne vorrebbe essere amica, non fan. E anche qui è ritornata la filosofia, l’ha infatti prima paragonato fisicamente a Wittgenstein -e un pò c’aveva ragione, ma Ludovico è unico- e poi anche filosoficamente, insieme a Deleuze, per questo fatto del superamento dell’idea platonista della scissione mente-corpo (se non ho capito male, che poi pure Cartesio...). Ha finito con un tenero «quanto le vorrei scrivere un email». Lui era basito, preso, ma un po’ sconvolto, e non sapeva cosa aggiungere.

Peter Greenaway è stata un’altra storia. Innanzitutto presentava un film, Rembrandt J’Accuse, un incrocio fra un documentario, una detective story ed una lezione di storia dell’arte -Greenaway è anche pittore, fotografo...

Il film racconta i trenta più uno misteri politici, sociali, giudiziari ed umani del quadro di Rembrandt La ronda Notturna, con lo stesso Greenaway che compare con volto e voce a sovraimporsi ad immagini di quadri, pezzi dal suo film di sola finzione (?) sull’argomento, ovvero The Nightwatching, e bellissimi immagini del museo dove è ora custodito. Il tutto condito da un’analisi disarmante dell’opera di questo pittore estremamente narrativo, anti-misogino, democratico e dotato di una sospensione del giudizio degna di un post-moderno (parole sue), quale era Rembrandt. Insomma sto film è una gemma.


Alle volte un po’ pedante, ma d’altronde, e questo si è capito dalla chiaccherata che poi abbiamo potuto fare con Greenaway stesso, è una sorta di primo passo per un’educazione visiva, un tentativo di rifondare la stessa arte cinematografica mettendo al centro l’immagine, e quindi cercando di crearne una cultura, rispetto a questo cinema text-based che Greenaway non apprezza affatto.

«Non posso andare da un produttore con 4 quadri, 3 litografie ed un libro di disegni e chiedergli “datemi i soldi, questo è il film”, perché i produttori sono visivamente ignoranti»

C’aveva davvero una grande voglia di parlare, cercava provocazioni -«Alzi la mano chi ha ricevuto un’educazione artistica...mmm...bene, direi l’otto percento, è sempre l’otto percento, se includiamo me compensate e facciamo il dieci...»- che purtroppo il pubblico intimorito non ha recepito granché, buffoneggiava (l’ha detto lui) alla grande, sparava a zero sul cinema contemporaneo, così come sulla sua storia, che vorrebbe riscrivere proprio a partire da Rembrandt, primo regista, inventore di quel cinema che altro non è che «candele e specchi» (che classe, madonna che classe,) e che anche altri (Caravaggio) quasi tre secoli fa concepirono.

Era quasi inarrestabile, mi ha così travolto che visto che nessuno si azzardava a fargli una domanda, mi son trovato ad alzare il braccio io, senza rivelarvi per chiedergli cosa, vi dico solo che Peter Greenaway mi ha detto che faccio parte del suo pubblico ideale (sò soddisfazioni), al che poi gli ho pure chiesto un autografo e ci ho fatto altre quattro chiacchere (parlava di rivoluzione digitale, di immagini al potere...). Insomma, una bella serata.

Frammmento de sinistra: a parte i cartelloni degli universitari che però quasi non si vedevano, l’oratoria di Greenaway, sul femminismo che dovremmo appoggiare, sul repubblicanesimo, sulla democrazia incarnati in Rembrandt, pittore cittadino, era al limite della commozione, pur pervasa di ironia.

Frammento cinephile (ma anche un po’ trash): durante l’incontro con Cronenberg, ci sono state risa di gioia, grasse e divertitissime, da parte di un ragazzo molto devoto ed adepto mentre mostravano la violentissima scena della lotta nella sauna in Eastern Promises (La promessa dell’assassino, mi sa che è in italiano). In particolare quando Viggo Mortensen conficcava il coltello nell’occhio dell’altro russo, con annessi rumori viscidi.

23 ottobre 2008

Diario del vostro blogger infiltrato al festival del film di Roma 2008 - giorno 1


 1° giorno mercoledì 22 ottobre
il rutilante mondo del cinema raccontato da uno che non sa nemmeno cosa voglia dire rutilante

 innanzitutto, premetto, sì, quest'anno ci stanno i fascisti a comandare sta città e sto festival, ma ci vado lo stesso, che pare che stavolta mi potrò infiltrare un po' dove mi pare, proiezioni, conferenze, e forse addirittura qualche buffet-no vabbè, quelli no.  

 allora, innanzitutto oggi -ieri per chi legge- è stata la giornata di inaugurazione, dedicata interamente ad Al Pacino, che ritirava un premio. 

Alle 18 conferenza stampa, in cui il vostro infiltrato/inviato è riuscito ad accasciarsi sul pavimento per sentir conversare per un trequarti d'ora -pochino, effettivamente-questo piccolo (di statura) monumento del cinema americano, in completo nero e cravatta nera un po' slacciata. Scialbe domande da giornalisti di importanti testate quali "primissima", "primissima.com.it", "radio svizzera", "il messagero", una qualche tv portoghese con il suo giornalista eccitato, e soprattutto una giornalista che si è detta di radio rai, anzi di radio 2 rai ed anche del "quotidano del nord", o "nazionale" ché non ho capito bene. E già sta cosa andrebbe approfondita ché io vorrei capire se uno che lavora per la radio pubblica possa mai per lavorare pure per qualche altro fogliaccio locale di destra (sì, i nomi dei due ipotetici giornali che mi ricordo suonano di destra), Poi magari scopro che è una povera praticante/precaria, sfruttata, etc etc. e mi commuovo un po', ma non faceva comunque na bella impressione. Comunque i big, roba tipo le tv od i quotidiani a maggiori diffusione, non hanno fatto manco 'na domanda in conferenza, cosa per me non addetto ai lavori molto strana. E comunque sti giornalisti -dentro eravamo in realtà un po' cani e porci- non è che si affannassero troppo o scalpitassero per fare una domanda, anzi. Per lo meno non scalpitavano tanto quanto a fine conferenza, quando hanno assalito il palco, sovrastando anche le pur prontissime ragazzine - un badge non si nega a nessuno-, tutti in cerca di un autografo su pezzi di carta, taccuini ed affini. E Pacino è stato al gioco, ne avrà firmati un centinaio buono -alla sera, all'incontro col pubblico, ne avrà fatti tre a dirne tanti-. Insomma i giornalisti son decisamente dei ragazzini scalmanati, che per altro non sanno manco l'inglese visto che tutti o quasi avevano le cuffiette per la traduzione.  

Ma veniamo ad Al Pacino. Innanzitutto è un fico, che magari ve lo stavate chiedendo, ed io ve lo dico, visto da vicino è tappetto e un po' vecchio ma abbastanza un fico. E poi ci sa fare, sveglio, grande calma, discreto repertorio di battute, buono pause, intelligente, con impeto teatrale e poca sintesi cinematografica. C'aveva na discreta voglia di parlare, gli hanno chiesto un po' di tutto, partendo dal suo rapporto con l'Actors Studio (è qui in qualità di suo presidente). Io, le cose che mi han colpito di più, son state innanzitutto il suo dire che il grande ed unico consiglio che gli ha dato il maestro Strassberg quando recitarono assieme è "devi conoscere le tue battute, devi conoscere le tue battute", nulla di più, nulla di meno, e poi il suo ripetere più volte che lo sviluppo del personaggio è un fatto «consciously and unconsciously», e calcava parecchio unconsciously, con la sua voce non particolarmente profonda, a volte quasi sottile ed un po' stridula. Ed era bello il suono di quel unconsciously. E diceva che l'unconsciously lui lo trova, senza saperlo, soprattutto nelle prove. Poi ha detto che considera il cinema, così come si fa ora, che stai a recitare per 14 ore al giorno per un mese o più, una cosa che stanca troppo, che logora la troupe (crew in inglese) , gli attori, che toglie le energie, mentre pare che in Europa i film li si faccia con un po' più di calma (fortunatamente non l'ha sentito Brunetta). Poi ha detto n'altra cosa, che io proprio non c'avevo pensato, ovvero della «stigmate peggiorativa» che accompagna la parola recitare nella vita reale, con frasi tipo "ma smettila di recitare", o roba simile. E poi però ha concluso un po' banalmente che forse nella vita vera recitiamo, e quando recitiamo (io l'ho fatto alle medie l'ultima volta) diciamo la verità. Secondo me sta cosa se la poteva giocare molto meglio, comunque io me la tengo quella della stigmate peggiorativa, è interessante. Anch'io avrei invertito il discorso, nel senso che secondo me c'abbiamo paura di chi recita perché non solo ci mostra che recitiamo tutti, ma perché recitando nella vita dice la verità, ci mostra come uno possa essere qualcuno, impersonare qualcuno, qualcun altro, ma delle volte addirittura se stesso. E questo credo sia troppo. 

Poi Mr Pacino, interrogato su ispirazione ed aspirazioni dell'attore, ha fatto, in un gustoso aneddoto raccontato molto bene, una distinzione molto bella che ha ripreso poi anche la sera quando ha incontrato il pubblico -poi racconto anche di quello, 'spettino. Quella fra attori che li guardi e dici, "è troppo bravo" "ma come cacchio riesce a farlo" "io non saprei mai", e dici che son bravi ma alla fine non ti possono ispirare, e gli altri, quelli che a Pacino piacciono di più, che tu li guardi e dici "bravissimo, ma quello sono io, potrei essere io, l'avrei potuto fare io, lo voglio fare io!", insomma che diventano modelli, riferimenti, in cui ti ci ritrovii Ha detto proprio, "quello sono io". Secondo me poi Pacino non lo sa nemmeno lui in che categoria è per gli altri attori. E poi Pacino non sa nemmeno che ste cose che dice a me mi hanno fatto pensare a roba strana, tipo la questione dell'esemplarità, la filosofia del linguaggio ordinario -soprattutto la cosa della stigmate- ma questo è meglio che non lo sappia.  

A sera, come anticipato Pacino presentava al pubblico spezzoni dei suoi film intervistato da un paio di critici, gli stessi della conferenza stampa. C'erano un po' di quelli importanti che si so' fatti la passerella per entrare, io per fortuna non ho visto nessuno, mi dicono ci fosse gente tipo Simona Ventura,  Valeria Marini, Vittorio Cecchi Gori (che io pensavo stesse ai domiciliari) e Sandra Milo. Questo per farvi capire i rischi che corre il vostro blogger infiltrato, ché un festival non è solo divertimento e sovrastimolamento sensoriale. I vari spezzoni erano belli, di quelli dei grandi asolo di  Pacino ma non solo, che andavano dal Padrino ovviamente- ah, ha rivelato che anni dopo aver interpretato Michael Corleone, scoperse che un suo nonno era di Corleone- ad altri classici tipo Scarface, Profumo di Donna, Carlito's Way... Lui era al solito brillante, ha detto tante cose ma mo so stanco di scrivere, e poi comunque nulla di trascendentale. Il bello è stato alla fine di questi spezzoni, quando ha presentato 7 minuti del film che sta dirigendo a partire dalla Salomé di Oscar Wilde, un po' tipo il suo Riccardo III, in cui filma la piece, la rende anche un po' più cinema con esterni e tutti, ma la mischia e shakera ed incasina ed approfondisce mostrando anche i momenti di preparazione e prove e idee e pinzillacchere. Si chiamerà Salomaybe (il titolo non è granché). I 7 minuti promettono davvero bene.   

Poi mr Pacino ci ha lasciato con una chicca, con una gemma, con uno dei motivi per cui il vostro infiltrato va a 'sto festival, ovvero per vedere qui roba che sennò altrimenti mai. Ha fatto vedere per la prima volta qui in europa il suo film, di cui è regista e interpete, Chinese Coffee. Tratto da una piece teatrale che aveva a sua volta messo in scena, racconta di  due reduci un po' bohemien, un po' socialisti degli anni '60 -così li ha definiti-, e di come se la cavano -male- ad inizio anni '80 al Greenwich Village a New York, in quel mondo Off-Off-Broadway cui  ha voluto rendere omaggio perché è da lì che viene a sua volta. Di fatti un film sentitissimo, che è del 2000 e da noi non è mai arrivato, che vergogna. In un prologo racconta di come abbia voluto indagare l'amicizia, la quasi simbiosi, fra questi due uomini falliti, un po' disperati, molto svegli e lucidi pur se trasandati fin nell'animo, impastati l'un dell'altro. L'uno, uno scrittore tremebondo e riottoso, malfermo e ipocondriaco, che si barcamena con lavoretti cercando senza compromessi di scrivere -per poi trovarsi ad urlare che tutto quello di cui ha bisogno sono i soldi -è lo stesso Pacino. L'altro, un coltissimo fotografo da nightclub, ancora più appartato e sprangato in casa, con un blocco dello scrittore che dura da una cinquantina d'anni, è l'attore Jerry Orbach, che l'avrete visto in Law & Order, il telefilm, od in tante parti -io me lo ricordo in Crimini e Misfatti di Woody- come caratterista. Reggono tutto loro due, eccezionali, ciclomitici quasi nei rispettivi cambi d'umore ma di enorme coerenza e credibilità entrambi, da soli, in una sola stanza, in questo gioco di proiezioni, dell'uno che sa che l'altro sa che lui..., con qualche flashback o puntata all'esterno che si frammezza nelle immagini e rimanda un senso di stordimento forte che sembra pervadere il personaggio di Pacino. Ua roba incredibile, sincera, che rimette in discussione i loro rapporti, meccanismi di proiezione, invidie, rispettive identità, urla e tenerezze. Vi dico solo che inizia con questa citazione di Brecht (e nell'essere due emarginati, quasi-barbone l'uno, quasi-recluso l'altro, hanno molto di brechtiano i due personaggi): «I don't trust him. It's my friend».  

Eccone una clip, son dieci minuti. Assagiate e poi scaricatevi l'intero. 


Ah, per la cronaca, non solo tutte le persone da passerella se ne sono andate quando se ne è andato Pacino, ovvero dopo aver introdotto Chinese Coffee -credo molti andassero a cena con lui-, ma pure un bel pezzo di pubblico, per cui a vedere il primo film del festival del film eravamo decisamente in pochi.   

Momento cinephile (du role): vista in giro una bella maglietta gialla -addosso ad un tipo-, con un sole stilizzato che sembrava na cosa orientale, con scritto sopra "la corazzata potemkin è una cagata pazzesca"  

Momento de' sinistra (ovvero c'è rimasto solo il momento): alla passerella di gala della sera c'erano una cinquantina (so buono) di ragazzi de' sinistra, del centro sociale Horus appena sgomberatp, che protestavano per i tagli alla scuola, alla cultura e per la chiusura del loro centro sociale, con annesso urlo «Alemanno pezzo di merda». La polizia è stata buona. Il pubblico se ne è abbastanza fregato. Ah, c'erano pure studenti universitari che protestavano, ma un po' in disparte.  

Momento trash: per entrare da Pacino alla sera in coda ho beccato un attore credo di fiction, che rivelava pezzi di trama a due ragazze, che si lamentava di un altro attore della stessa fiction che va sempre in giro con la segretaria, che si ricorda le battute degli altri personaggi ma non le sue. Pare che un altro personaggio di questa fiction (soap?) creduto morto, non sia ovviamente morto, ma stia per tornare, però per soli tre mesi. Una delle due tipe saputolo ha esclamato «Devo subito chiamare mamma».

continua...