Egli sa con chiara certezza di non conoscere né sole né terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, e una mano che sente il contatto d'una terra.
Tutto ciò che posso derivare dalla conoscenza del mondo è creato da congetture, postulati, inferenze e roba simile. Insomma ancora dentro la mia testa.
Heidegger, invece, nel suo Che cosa significa pensare? ci presenta l'esempio dell'albero in fiore:
Noi stiamo [...] davanti ad un albero in fiore, e l'albero sta davanti a noi. L'albero e noi ci presentiamo a vicenda, l'albero stando lì e noi di fronte ad esso. Noi e l'albero siamo in quanto siamo posti in relazione l'uno per l'altro e l'uno dall'altro. In questa presentazione non si tratta quindi di rappresentazioni che ci ronzano nella testa.
Jolley nel suo Che cosa significa pensare secondo Bart (da cui questo articolo ha preso spunto) sostiene, al riguardo, che Heidegger personifichi l'albero in fiore: "Sia noi sia l'albero abbiamo facce: l'albero ci sta di fronte e noi stiamo faccia a faccia con lui; ognuno dei due sta di fronte a l'altro." e aggiunge "Heidegger personifica l'albero in modo da depersonalizzarlo. Vale a dire, lo personifica per rimarcare che l'albero è davvero davanti a noi, e separato da noi. L'albero non è una nostra rappresentazione."
Schopenhauer fa nostro l'albero, lo personalizza, Heidegger lo fa altro, altro da noi, lo personifica. Ed è molto più semplice e rassicurante rendere l'albero nostro, rendere il mondo una nostra rappresentazione piuttosto che ammettere che esiste davvero qualcosa là fuori, di estraneo ma sopratutto di autonomo e magari realmente incontrollabile.
Se avesse ragione Schopenhauer, la comprensione del mondo si ridurrebbe ad una comprensione di noi stessi e quindi, una volta che una persona abbia compreso pienamente se stesso comprenderebbe spontaneamente tutto il resto (che è sua rappresentazione e nient'altro).
Ma sorge questa cosiderazione: nelle relazioni umane esistono precisi codici di comunicazione, linguaggi convenzionali affinati nei secoli che dovrebbero fornire gli strumenti per trasmettere con certezza e precisione ciò che è dentro la mia testa fino a giungere la testa di qualcun altro. Ma il destinatario del messaggio è solo una rappresentazione o è davvero là fuori? Il non capirsi, l'incomprensione che spesso può verificarsi fra due persone, è forse la prova che siamo due persone diverse, distinte?
E allora ci si rende conto che non si può depersonalizzare se stessi, cioè portare la nostra testa fuori dalla nostra testa. Ogni persona, in un dialogo con un'altra, rimane un se stesso visto da se stessi, e non può quindi spontaneamente capire l'altro dialogante.
Sarebbe dunque un ottimo, ma tremendo, proposito quello di rifiutare la tesi di Schopenhauer ed ammettere che gli altri sono diversi e distinti da me, di modo che li possa personificare. E quindi non cercherei più di capire solo la mia testa per capire tutto il resto, ma mi sforzerei, per quanto possa essere difficile, di capire anche l'altro (che esiste davvero).
Infine non posso non citare un brevissimo dialogo fra altri due dei più grandi filosofi dell'era moderna, che probabilmente avevano già capito tutto:
Bart: Che cos'è la mente? E' solo un sistema di impulsi? O è qualcosa di tangibile?
Homer: Cos'è la mente? Non materia. Cosa fa la materia? Non mente. Dehihihohoh!