Poco fa quando un...* tipo che chiedeva qualche spicciolo ad un semaforo, facendo un gesto con indice e pollice alla Fred Buscaglione quando in Eri piccola sottolinea il “così”, mi ha chiesto (i soldi per) un caffè, mi sono messo a pensare come proprio il caffè sia una delle nostre unità minime di desiderio. Desiderio di soldi (il tipo mica mi ha chiesto il necessario per un panino, che sarebbe stato più conforme al suo cartello con la scritta “sono povero”), desiderio di socialità stretta e intima o solo di puro riconoscimento (“ci andiamo a fare un caffè?”), di due chiacchiere, insomma desiderio di un po’ di piacere riconosciuto ed universalmente -o giù di lì- accettato, desiderio ad uno dei livelli più basici seppur dotato di contesto di godimento e d’uso (bar ed integrati meccanismi sociali), che poi tanto ognuno al gusto del caffè ci attacca quel che gli pare.
Questo desiderio (di desiderio) che compare nelle nostre vite con un po’ più di leggittimazione di alcool e sigarette si sta però compromettendo; i due eccessi sono i perversi del “famolo strano” e quelli del “caffè senza caffè”: per “famolo strano” non intendo quelli che sono in quattro e “uno al vetro macchiato freddo, uno ristretto, uno macchiato caldo ed uno doppio grazie”, che qui siamo ancora alla sana dose di perversione che costituisce l’identità, ad ognuno la sua variante di piacere, un po’ come la variabile della quantità di zucchero che ci caratterizza tutti (“quanto?”). I veri campioni del “famolo strano” invece sono i neo-caffettari all’americana (sì, sul caffè sono proprio anti-americano), che nei loro Starbucks offrono un varietà impressionante di caffè. Frappuccino, Mocaccino, Chistmas Blend, Doppio Masscìato (sì, manco lo sanno pronunciare) con il latte di soia/bovino/organico, Dark Roast, Sumatra, Espresso e tutte le varie possibili decine di combinazioni che disperdono il semplice e banalmente potente desiderio in un’infinità di scelte e "bellezze", un po’ come fanno i sex-shop, in cui il rischio è più di perdersi e perdere la propria declinazione sessuale che quello di trovare il “santo graal” del piacere, che ci darà la tanto sospirata gioia.
All’altro lato dello spettro c’è il “caffè senza caffè”, ovvero il decaffeinato, il sesso senza la sporcizia, l’amore senza (la possibilità del) dolore, il gusto senza retro-gusto, insomma un desiderio depotenziato, variante che ovviamente Starbucks ed affini offrono per ogni tipo di loro caffè, incastrando in maniera così geniale queste due perversioni: il perdersi (nella scelta) della perdita (con quale mi de-caffeino?) oppure il disperdere (il desiderio decaffeinato) nella possibilità dei molti possibili (puri e non decaffeinati desideri).
Non ho nulla contro la ricerca del gusto, o con la sua educazione, o con il conciliarlo con la salute o con tutto quello che vi pare, ma sui caffè, proprio perché ci giochiamo solo il caffè ovvero il desiderio come tale, toccherebbe forse smettere di essere così complicati, bypassare tutte le paure e le dipendenze, e prenderlo sul serio semplicemente godendoselo. Che poi io in realtà piglio quasi solo cappuccino.
*e mo come lo chiamo? “signore”? troppo in-distinto, “mendicante”? no fa troppo dickens o la bibbia con afflato di pietà paternalista, vabbè diciamo...“tizio”, o forse “tipo”. Che palle sto politically correct, ecco mo finisco sta nota, torno su e scrivo “tipo”, ecco, sì “tipo”!
2 commenti:
e a questo punto invito tutti ad ascoltare la canzone "La caffettiera" dell'amatissimo Bugo.
certo che quando si inzia a parlare di caffè si è arrivati...dai scherzo fra.
ogni tanto vengo qui nella speranza di tovare la risposta..a chissà cosa poi ?!
Riccardo
non mancherò di procurarmela (legalmente of course), c'è pure una puntata di scrubs su una caffetteria, si vede che il mondo ogni tanto congiura senza saperlo
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