Nella mia vita non ho mai incontrato nessuno che si definisse “povero”, o più dickensianamente mi dicesse ad un certo punto del discorso una roba del tipo “vengo da una famiglia povera”. Va bene, in realtà nessuno tranne i mendicanti ed i loro cartelli. Che non sono pochi e mi scuso della nessuneità attribuitagli. Comunque tolti loro non ho incontrato nessuno che si definisse tale, né adoperasse altri sinonimi come “indigente, incapiente, bisognoso...”, insomma nessuno che si iscrivesse esplicitamente in questa famiglia semantica. Ed effettivamente l’avesse fatto, questo “nessuno” che nel caso ora supposto diventa inevitabilmente un “qualcuno”, me ne sarei stranito, ché forse davvero la parola oramai è d’uso solo per tentativi di muoverci a pietà e richieste d’oboli, dei lavavetri come dei maxiconcertoni. Ho chiesto in giro, e tranne due eccezioni, tutti mi hanno confermato di come la parola, l’aggettivo, manchi dallo spazio sonoro quotidiano, vissuto. E non è che io frequenti solo “ricchi”, anzi praticamente non ne conosco, e nemmeno solo classe media -cui appartengo-, insomma, come tanti conosco, frequento, sono amico di gente che è precaria a due lire due, che è figlia di operai o insegnanti delle superiori -che tanto poco ci manca- ed anch’io, senza la famosa famiglia alle spalle, sarei in grossi guai economici. Pensavo a questa mia poca familiarità vissuta con questo termine, anzi con l’aggettivo, di contro a quanto in questi giorni, ma non solo, sui giornali si parla spesso del sostantivo, della “povertà” diffusa fra noi italiani («“vecchietti” che rubano nei supermercati», «difficoltà della quarta settimana, anzi terza»). D’altronde, oltre ai quotidiani che tirano in ballo Istat, Censis e Caritas, l’impoverimento generale è visibile ovunque, oltre che percepibile direttamente dagli spazi vuoti e dalle voragini che si trovano nelle proprie tasche, e non è che non si parli di soldi fra amici, conoscenti e quasi-estranei, che oltre il tempo e le prestazioni calcistiche, il “caro-euro” è una garanzia del discorso meccanico e automatico. Eppure, ripeto, di qualcuno che si definisca “povero” neanche l’ombra; senza una lira, non ricco, con debiti, che non può venire al cinema perché non se lo può permettere sì, ma povero mai.
Certo, per capire perché non ci si riconosce più in questa parola, qui ci vorrebbe una definizione di "povero", il che è una cosa complicatissima, e dire che è qualcuno che non arriva a fine mese non basta, ché un conto è il fine mese di un ruandese un conto di un italiano, poi si può arrivare a fine mese a stento per pagare un mutuo di una casa di 300 mq in pieno centro e la benzina per il Suv, o in affitto in periferia tagliando pure sui viveri. E forse questa confusione è indicativa di come stiamo perdendo una categoria importante nella sua semplicità, che descrive e soprattutto caratterizza il mondo in maniera decisiva, che rimanda a quella necessaria conflittualità fra ricchi e poveri che c’è da quando esiste la narrazione umana e quindi la civiltà. Per inciso, forse una dei grandi meriti della sinistra, comunista e non solo, era stata l’aver tirato fuori una nuova parola, “proletario” o “classe lavoratrice”, quasi coestensiva a “povero” ma che toglieva fuori, chi ci si riconosceva, da questa strana atmosfera peggiorativa che da un po' ha, stupidamente, iniziato a circondare il termine. Il "povero" rimanda, rimandava forse, in parte alle favole, così come ad un’Italia contadina e affabulatoria che di esse si nutriva - e lì c’era ancora qualcosa di essenziale e centrale, la rabbia ma anche un saper vivere-; da qualche decennio invece fa pensare all’Africa, al terzo mondo in genere, ad i “paesi poveri”, baracche e quant’altro, od ai pezzi di terzo mondo che sono qui da noi, come i mendicanti, i lavavetri, insomma agli altri, a quelli fuori dal gioco, che evidentemente il gioco del consumo, dei centri commerciali in cui ci sono tutte le classi sociali, non ammette poveri, e d’altronde è sempre più difficile usare questa categoria quando con 30 euro vai a Londra (i poveri non fanno i turisti, nemmeno low cost, al massimo i viandanti col fagotto o gli emigranti). Si parla di spesso “soglia di povertà” e non si capisce più se la si è attraversata o meno, quanto sia davvero vicina, perché comunque si parla sempre di povertà in generale o di poveri che son altri e distanti, anche semplicemente fuori dal finestrino della macchina. Attenzione però a non guardarsi nello specchietto retrovisore.
12 aprile 2008
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