30 ottobre 2008

Diario del vostro blogger infiltrato al festival del film di Roma 2008 - giorno 7

7° giorno Martedì 28 ottobre


Alle 3 o giù di lì ho visto El ùltimo truco. Emilio Ruiz Del rio. Un excursus su uno dei vecchi artigiani e maghi degli effetti speciali ma molto normali e comuni nel cinema, scomparso poco dopo la realizzazione di questo documentario a lui dedicato. Per quasi cinquant'anni -forse 60 in realtà- ci ha fatto credere e vedere di tutto sullo schermo, usando solo i suoi modellini e la sua pittura. Dai peplum a Dune, in più di 5oo film, passando anche per mastro Orson Welles, Il Dottor Zivago e Il Labirinto del fauno di Guillermo Del Toro, quest'uomo qua, Emilio Ruiz, ha fatto cose incredibili, prendeva dei modellini, fatti da lui, studiava l'inquadratura della telecamera e li posizionava, dipingeva e contornava in maniera tale che si integrassero con la realtà perfettamente. Purtroppo in rete non si trova un dannato video che mostri il tutto, ed è un gran peccato perché io non son sono bravo a spiegare con ste misere parolequanto ho visto, e ridarvi soprattutto quel senso di meraviglia, anzi maraviglia, che come un bambino m'aveva circondato. Qui ci sono delle foto trovate in giro ma non rendono, sorry.















Insomma io dopo questo documentario non guarderò più al fondo di un'inquadratura alla stessa maniera. Quest'uomo era un geniaccio, artigiano, regista, fotografo, pittore, creava questi effetto speciale che si chiama cinema tutto in diretta, tutto già nell'inquadratura, senza nemmeno un po' di lavoro in postproduzione come si fa ora col digitale.
Ed il povero Emilio, qui nel film vecchio lucido e simpatico ancora al lavoro ed ancora col tocco del mago, non ha quasi mai ricevuto il reale merito del suo lavoro, ché nessun produttore voleva che si sapesse che quel castello inquadrato là, quella città araba, o Parigi, o l'assalto al vascello dei pirati, fossero realizzati con legno, pupazzetti e taaaanto ingegno che manco vi immaginate. Per dire, una volta ha fatto un'arena romana sovrapponendo il complicattisimo modellino ad un'arena di tori di cui si vedeva solo il campo, e visto che serviva anche il pubblico ma non c'erano soldi, prese dei pupazzi, li attaccò a delle molle e li fece muovere con il ventilatore. E nel film tutto funziona, grazie al suo occhio da macchina cinematografica, ai suo trucchi che sono cinematici, funzionano solo per la lente dell'obbiettivo, ma diamine se funzionano.

Successivamente un altro omaggio, al grande Nino Manfredi, con la famiglia in sala, oltre al grande Luigi Magni -un po' rincoglionito, ma comunque con qualcosa da dire, dice pure che ha scritto un romanzo che sta per uscire con Marsilio- o l'eccelso Trovajoli. Hanno fatto vedere dapprima L'avventura di un soldato, mediometraggio (se 20 minuti sono un mediometraggio) del 1962 prima regia di Manfredi, tratto dal racconto omonimo di Calvino, che, riportava la moglie di Manfredi, pare ne fosse rimasto estasiato. Non a torto, Manfredi, pur venendo dal doppiaggio e dalle varie voci possedute, costruisce un racconto silente, dove non pronuncia una singola battuta, dell'incontro sensuale fra un soldato ed una vedova su di un treno che si muove per il basso lazio. Ne avevo visti dei pezzi, credo su La7, nei vari ricordi di Saturnino Manfredi -a me m'ha sempre ispirato affetto, per quel suo essere un po' contadino, un po' con la faccia ingenua ma volto sveglio, ché proprio con Magni fece Pasquino, diamine!-, ma devo dire che merita di essere visto nella sua interezza, proprio bello, di gran precisione, nulla è casuale nelle immagini, tra il didascalico e l'ironico. Perfino vario, ché essendo praticamente ambientato in uno scompartimento non è proprio facile. Insomma da vedere, sta nel film a episodi L'amore difficile.

Il tutto è stato seguito dalla proiezione dell'ultimo film (2003) di Manfredi, praticamente mai arrivato in Italia, una produzione spagnola -si dice così- dal titolo La Luz Prodigiosa. La storia di partenza non è male, si parte dall'ipotesi fantasiosa che Federico Garcia Lorca, dopo la fucilazione da parte dei Franchisti, ferito e in fin di vita, venga salvato da un giovane contadino, che lo cura e lo rimette in sesto, sebbene la ferità alla testa lo abbia reso incapace di ricordare, di comunicare, ridotto a delle farneticazioni. Lasciatolo in ospizio per poveri il giovane parte per la guerra. Stacco, cinquant'anni dopo, il giovane è diventato vecchio e va in cerca di quel pover uomo, ribattezzatto "Tartaruga" visto che nessuno sapeva chi fosse. Tartaruga è ovviamente Manfredi, ridotto qui a vagabondo, a mendicante fuori di testa e ancora totalmente ignaro di chi fosse -anche qui un ruolo quasi silente, ma Manfredi a quell'età lo rende credibile, il che non era facile-, e di qui si parte alla riscoperta del suo passato. Peccato che sia girato un po' troppo come una fiction, che il doppiaggio degli altri personaggi sia agitato, non credo tanto corretto seppur non ho idea della recitazione originale. Comunque qualcosina questo film ce l'ha, forse il solo Manfredi o per lo meno il mio affetto di spettatore per lui, ma non credo


Dopo di ciò c'è stato l'incontro con Mr Michael Cimino, un geniaccio che fra le altre cosa ha fatto fallire la United Artist con il suo i Cancelli del cielo -sta cosa la si dice sempre, ma mo vedete che c'ha a che fare con quello che sto per dire. Cimino sta messo male, male assai, la pelle sembrava di plastica -forse tutta rifatta, forse è malato grave-, i capelli finti, sempre gli occhiali addosso come a proteggersi gli occhi, era vestito molto da giovane, ma si vedeva che non stava granché e lui stesso ha parlato di operazioni - tra cui una alla corde vocali- che gli impediva di tenere l'incontro parlando. Comunque potete vedere il tutto da voi qui nei vari video di Repubblica. Al che ha portato un montaggio di scene di ballo e canto da vari film, senza nulla di intellettuale o di particolarmente pensato, ha ripetuto più volte. Insomma, un'ora di corpi danzanzti e canatanti giusto per il nostro «amusement», specificando anche qui più volte che Mr John Ford diceva che tre son le cose che è bello riprendere al cinema 1)cavalli in corsa 2) una coppia che balla 3) una grande montagna, e lui, Cimino, ha scelto la seconda.

Belle scene, da Gigi di Vincent Minnelli, a un po' di Ginger Rogers e Fred Astaire -quando hanno cantato e danzato Isn't A Lovely Day ero quasi commosso, di qui la riproposizione qui sopra-, una sola spruzzatina di Gene Kelly, che è un peccato, e poi Visconti con il Gattopardo, e Fellini con lo Sceicco Bianco. Anche suoi due film, il Cacciatore ed I cancelli del cielo. Poi Bob Fosse con Cabaret, in particolare la scena famosissima di Money, e varie scene da Carmen di Carlos Saura che gli deve essere piaciuto assai assai e vi metto qui sotto, e poi tanti altri che non ricordo.



Molto piacevole questo montaggio, nulla di più, ma comunque non è poco. Dopo tutto ciò ha interagito, ma poco poco, con il pubblico, ed alla domanda perché siano 12 anni che non fa un film, rammaricandosi di come Ford ne facesse tre all'anno, ha detto testuale che non è per mancanza di tentativi, ed ha fatto capire che non glieli fanno fare -capito il perché dicevo quella cosa del fallimento della United Artist?.

Dopo, a tarda sera, sono andato a vedere Easy Virtue, non so perché c'era Jessica Biel, ma soprattutto perché il regista è Stephan Elliot, quello di Priscilla, la regina del deserto, ed è pure tratto da una commedia di Noel Coward del 1926, peraltro messa in scena con un film muto già da Hitchcock. Ed effettivamente il testo, l'idea, le battute ed il ritmo non sono male, è la storia dell'incontro scontro fra una dinamica, moderna pilota automobilistica americana -la Biel, bella, che dire, e pure un po' brava- e la famiglia e la realtà dell'aristocrazia -o roba simile- campagnola inglese da cui proviene il suo giovanissimo sposo, ah, il tutto ovviamente negli anni '20. La suocera, guarda un po', è in particolare la sua avversaria principe, interpretata da Kristin Scott Thomas, di sicuro la migliore del film. Che dire, Elliott è bravo, scegli un taglio ironico per ritrarre questi roaring twenties in modo molto patinato, con parecchi giochi di specchi e inquadrature d'ambiente che d'ambiente non sono, ovvero che con macro strane, movimenti di macchina e fotografia fanno parlare abbastanza gli oggetti di quegli anni. Contemporaneamente al film manca qualcosa, forse in parte anche al testo un po' prevedibile seppure molto brillante, da commedia di una volta tutta basate sulla parola. Insomma, non ho ancora capito se mi è piaciuto.

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