28 ottobre 2008

Diario del vostro blogger infiltrato al festival del film di Roma 2008 - giorno 4

4° giorno Sabato 25 ottobre

Allora la giornata inizia male, con Os Desafinados di Walter Lima Jr,, uno dei tanti film brasiliani, visto che una delle sezioni è dedicata proprio al Brasile. Film cartolina su un -fittizio- gruppo di bossa nova nel brasile degli anni ’60, in cerca di fortune Newyorkesi, con in mezzo pure un po’ di politica e qualche passagio dedicato al Brasile dei generali dopo il golpe del 1964. Un insieme di prevedibili e scontate banalità sul Brasile, sugli anni ’60, sulla musica, insomma su tutto. La colonna sonora è buona, con brani anche originali, ma è molto laccata, quasi finta e con suoni troppo perfetti, freddi, che per la Bossa è un po’ come morire. Il film viene preceduto da almeno 3 o 4 minuti di “con il supporto di” o roba simile, e scorrono simboli di una quantità di industrie brasiliane da fare impressione. Dalle linee aeree alle compagnie petrolifere. Il protagonista è Rodrigo Santoro, visto in 300 (aaargh) dove faceva Serse e soprattutto in Lost (Paulo, quello che stava con Niki poi seppellito vivo). Era presente in sala, da solo perché regista e produttore erano in altri festival a presentare il film -testuale. Almeno ho conosciuto uno dei losties, il che fa curriculum.

Ho lasciato la sala 10 minuti prima per andare all’incontro con Olivier Assayas, con annessa proiezione di L'Heure d'été, il suo ultimo film. L’incontro è stato molto interessante, innanzitutto per i molti di spezzoni di suoi film precedenti lì per lì commentati, molti dei quali non conoscevo affatto, alcuni erano roba veramente tosta, immagini potenti, vive, molto vicino cinema d’avanguardia -si è parlato parecchio di cinema sperimentale anni ’60 americano, ed anche di free jazz punk inglese, davvero, ché Olivier ha confessato come nel suo cinema cerchi di ricreare quella sensazione che da pischello degli anni ’70 gli dava la gran musica dell’epoca, dal punk come detto a tutto il resto, insomma quella musica come “centro della controcultura” in cui si è formato. Ha fatto un po’ impressione che il suo discorso, che molto insisteva su “una riscoperta dell’ordinario” -vabbé lui non lo dice così, ma quasi-, sull’importanza del ritornare sulla prima volta dell’immagine, della rappresentazione che si riferisca di nuova alla realtà e non ad altre immagini, per recupeare visivamente la forza fisica, corporea del film, anche la sua violenza, cercando di raccontarla non lasciandone il monopolio agli americani -cfr. il suo Demon Lover, di cui è stata mostrata una scena di lotta bellissima, confusa e diffusa, od il suo Irma Veg nella cui scena finale è la pellicola stessa ad essere violentata, grattata, macchiata. Il cinema indipendente, diceva, rischia di perdere la dimensione corporea, e quindi il contatto coi giovani che proprio per questo non hanno proprio tutti tutti i torti a rivolgersi agli americanoni. Insomma sembrava la sintesi creativa dei due diversi discorsi portati avanti nei giorni scorsi da Peter Greenaway e David Cronenberg, come gli ha fatto notare anche il critico Mario Sesti. Tra l’altro, come Greenaway, ha Assayas accennato anche al suo essersi molto dedicato in gioventù alla pittura.


Poi si è passati al film, L'Heure d'été, uno in cui, come ha detto sempre lui ché io son solo cronista della realtà, dopo aver esplorato una realtà globalizzata -brutta parola ma lui non l’ha calcata troppo e soprattutto l’ha connotata-, ovvero dopo aver girato in altre lingue, in altri paesi con attori di altre culture, ha sentito il bisogno di tornare a casa, in Francia, per raccontare questa storia familiare, assai bergmaniana come ammesso da lui, delle conseguenze e dirimazioni della scomparsa dell’anziana madre di una famiglia altissimo borghese [Assayas ha di recente perso la madre, ma la storia non è autobiografica, disse lui, ma i sentimenti mi sa di sì, dico io]. Film pacato, classico, in fil di fioretto, quasi minimale a volte, anche se ricchissimo a livello di immagini, grandi attori, fra cui Juliette Binoche, insomma na roba che non ti aspetti da uno così esuberantemente creativo come lui. Da vedere, e non dico di più, che purtroppo ho perso l’ultimo quarto d’ora, che ai festival è così, e soprattutto dovevo andare a vedere Caetano Veloso.

C’era un documentario su Caetano Veloso, Coracao Vagabundo, diretto da un ragazzo Brasiliano che quando aveva iniziato cinque anni fa a farlo c’aveva 22 anni, e mo’ 27 dice lui, guarda un po’, mi sa che compie gli anni tutti gli anni, certo che però ne dimostrava 15, ma questa è un’altra storia. Comunque mr Caetano Veloso -ché tanto sapranno benissimo chi è, quindi non ve lo dico- nel corso delle sue scorribande nel mondo per i vari tour viene ripreso a parlare di Brasil (nannara nara naranà), musica, film, di Antonioni -che c'è nel film- e Professione reporter, un pò ma non troppo dei cavoli suoi, della sua antireligiosità -eravamo all’auditorium di via della conciliazione e dopo st’affermazione temevo arrivassero i marines del prospiciente Vaticano, ma per fortuna no. Nulla di trascendentale che Caetano mica è un saggio, ci tiene a dirlo pure lui, però si faceva guardare, lui è molto marpione, un po’ presuntuoso -voce di popolo- e con una grande classe, molto elegante, poi quando cantava era un piacere assai piacevole. Il pischello regista poi se la cavava, ed alcune immagini erano interessanti, dei fuori fuoco o anche solo gli sguardi nelle metropolitane delle varie città. Il momento clou, oltre alla comparsa a New York del di lui amico David Byrne (lo amo) è quando un monaco in un tempio buddista lo riconosce e gli dice che lì, nel tempio, ascolta sempre le sue canzoni, in particolare gli dice proprio Coracao Vagabundo -ah, pare che in Giappone facciano come dessert esclusivamente una pasta di fagioli (?!) rosa shocking che a Caetano, e credo pure a me, non piace.

Ma il vero clou del clou è stato quando è arrivato Caetano in persona, lui proprio lui, e dopo aver maltrattato un poquetinho la giovane interprete -sì, un pochino, ma poco, è spocchiosetto- ha fatto un pocket show -sì dice così- per noi, chitarra e voce. Quaranta minuti di gioia, ché quando ha fatto Desde que samba è o samba quasi mi alzavo -ero in 5a miracolosa fila- e lo abbracciavo. Ha fatto pure Cucurucu Paloma, e poi i due standards americani Body & Soul e Love for Sale, quest’ultima con la sola voce -a cappella dicono quelli bravi. Faceva parecchie piccole stecche con la chitarra -nel film stesso sosteneva di non essere un grande chitarrista- ma ha retto come pochi si possono permettere così a nudo, Voz & Violao come si intitolava un album di Joao Gilberto. Ha una voce incredibile, calda e profonda, ma capace di falsetti chiari e limpidi, e poi modulava sempre le notte, interpretava il tutto. Ha cantato pure una sua bellissima canzone omaggio ad Antonioni ed a lui intitolata, un po' ardita e dissonante, un po' ermetica, un po' dolce. Un grande. Certo poi non è uscito nonostante un acclamazione clamorosa -ehm-, ché il pubblico era in deliquio, e non ha fatto il bis. Comunque io ci voglio bene uguale a Caetano Veloso.

il Frammento de sinistra oggi è in vacanza

Frammento cinephile (du role): Olivier Assayas,
Olivier Assayas, lui tutto intero, altro che frammento-che poi wiki ti dice che il padre era sceneggiatore e lui a 25 anni scriveva sui Cahies Du Cinema, e dici, vabbè.

Frammento trash: la sequenza di Os Desafinados in cui Rodrigo Santoro si butta sul letto, braccia aperte e sorriso deficiente, urlando “I’m in Heaven”. Ora capisco perché l’hanno ammazzato subito in Lost.

Frammento iper-trash: il pubblico all’incontro con Assayas che scalpitava, che voleva smettesse di parlare e si passasse al film, così da evitare che si sovrapponnesse a quello delle 8, presumibilmente The Duchess (ne parliamo domani, e spero suoni minaccioso). Insomma sti tizi si son pure messi a protestare platealmente. Che vergogna

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